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Watchmen - Recensione: di maschere, uomini, odio e un Dio in un bar

Abbiamo visto il Watchmen di HBO ideato da Damon Lindelof e dopo averci pensato e ripensato per qualche giorno, vi abbiamo portato una recensione, no spoiler, per spiegarvi cosa è la serie e in che misura funziona 

Watchmen di Alan Moore e Dave Gibbons è senza ombra di dubbio una delle opere a fumetti più celebrate di tutti i tempi ed è stato ritenuto per molto tempo un racconto infilmabile - il che sostanzialmente significa che quell'invisibile collettività che compone la comunità artistica composta dai registi di Hollywood ha ritenuto il film impossibile da tradurre in un racconto per immagini. 

 

Le motivazioni non risiedevano tanto nei limiti tecnici, considerando che il fumetto è del 1987 e che Hollywood deve aver davvero considerato di portarlo sullo schermo solo molti anni dopo, ma nella possibilità di tradurre in un racconto per immagini la densità narrativa che la scrittura di Moore aveva racchiuso in quell'opera e adattata con una gabbia molto particolare da Dave Gibbons.

 

Per chi non lo sapesse, la gabbia è la struttura di vignette che compone la tavola di un fumetto e se in italia siamo abituati ad alcuni grandi marchi che impongono dei dogmi - Bonelli e i Bonellidi o Astorina - nel fumetto americano si gioca in un campo molto ben diverso e il linguaggio a fumetti passa molto spesso per il gioco che viene fatto con la gabbia. 

 

Per fare un parallelo la gabbia sta al fumetto tanto quanto il montaggio e le scelte di regia stanno al cinema, poiché le vie del racconto passano sulla carta non solo per la regia delle immagini disegnate ma per come queste si presentano nella loro struttura su pagina - montaggio. 

 

 

 

Il Watchmen di Moore vive di piccole vignette ripetute a dare un senso di staticità sempre diverso a seconda di quanto accade e se in alcuni casi è desolante, in altri può essere crudo o decadente.

 

L'altro nodo che coinvolge questo aspetto sta proprio nella scrittura di Moore e nello stile unico che l'autore britannico porta in ogni pagina del suo fumetto.

 

Il Moore-pensiero ruota attorno ad alcuni snodi ben delineati lungo la sua storia e che ad oggi al cinema sono spesso stati fraintesi, male interpretati o sviliti.

 

In Watchmen quello che Alan Moore cerca di fare è partire dalla figura del supereroe della Golden Age del fumetto, quell'archetipo mitico e ineguagliabile che ha visto giungere a un apice gli archetipi narrativi dell'eroe in calzamaglia, per trasportarlo nella sua critica visione di un mondo reale esagerato dalle sue distopie, facendo della decadenza del giustiziere mascherato il fulcro di un'allegoria a raccontare le criticità della società americana e del sogno americano in fumetto. 

 

 

[Una delle tavole del fumetto di Alan Moore e Dave Gibbons]

 

 

Il mondo descritto da Moore in Watchmen sa di sangue, sa di morte, è crudele e inesorabile in alcune logiche, incarnate non tanto da personaggi quali il Comico, Rorschach, Gufo Notturno o Spettro di Seta, ma da quel carattere intelligibile e potente che è il Dottor Manhattan.

 

Manhattan è il groppo alla gola della scrittura di Alan Moore, il nucleo della sua essenza artistica, il pensiero di un autore che crea un Dio in un tiro di dadi da laboratorio del quale non si conosce bene la mano, al solo scopo di farne una metafora utile a renderci comprensibile quanto Dio, per noi, sia una distrazione, un espediente sul quale vorremmo poter contare ogni qual volta la narrazione del reale ci delude e vorremmo solo uscire dalla buca che ci siamo scavati sfruttando un cavillo talmente potente da zittire ogni contestazione e sovvertire l'ordire delle cose. 

 

Nella storia dell'umanità, escludendo quella trama collettiva delle religioni monoteiste e quella meravigliosa eredità rappresentata dagli scritti delle culture politeiste, solo Alan Moore è riuscito davvero a scrivere Dio, dotandolo di velleità, idiosincrasie e fragilità umane deformate da una realtà per noi inconcepibile, al punto da essere irritante quando l'indolenza dello stesso Manhattan prova a renderci conto di come funzioni un Dio, comunicando cosa potrebbe essere se esistesse davvero nella nostra concezione terrena.

 

 

 

 

Scrivere Alan Moore, scrivere Watchmen e tradurlo sullo schermo, significa riuscire a portare il Dottor Manhattan a schermo in modo credibile.

 

Senza renderlo stupidamente solenne, evitando di mitizzare Rorschach assecondando gl'istinti più facili, riponendo il nostro peggior cinismo e macchiettistico ego in Ozymandias e utilizzando un quadrato sguardo sul mondo per farcire quella distopia supereroistica e sociale, declinando in quell'universo i nostri dubbi, le nostre critiche e il nostro peggiore umore, trovando, se possibile, spazio per un vago ottimismo.

 

Alan Moore non aveva lasciato davvero spazio ad entusiasmi e gli eroi messi in discussione nel suo racconto hanno una visione estremamente nichilista del loro ruolo e del mondo e la storia, alla sua essenza, è un pretesto per discernere una riflessione molto più interessante sulla necessità di avere degli eroi e su cosa potrebbe diventare il nostro mondo se cedessimo davvero al controllo di uomini forti guidati da egoistiche azioni calcolate rispetto alla massa e la necessità di contare sempre su Dio. 

 

Questa visione di Watchmen, come il tempo per il Dottor Manhattan, è al tempo stesso giusta quanto sbagliata e l'opera è aperta a molteplici sfumature e visioni riguardo i suoi umori. 

 

Eppure è piusttosto facile intuire quanto sia complesso portare un racconto i cui punti cardine non stanno nella linea retta della sua storia, tanto quanto nel contesto e nei suoi turbamenti, facendo di un buon intreccio qualcosa di necessario ma pur sempre il dito che indica la luna.

 

Scrivere Watchmen è quindi l'orgoglio di ogni autore che non si rende conto di doversi misurare con una bestia insidiosa e il cui ego porterà probabilmente alla sua autodistruzione.

 

Portare Watchmen sullo schermo, trasmigrare quell'universo in un racconto per immagini, in luce di tutto quanto detto fino adesso, è follia e richiederebbe una capacità di messa in scena e di coscienza narrativa che, non me ne vogliate, il buon Zack Snyder ha mancato - non ha proprio capito Moore e il suo taglio è molto superficiale e fa tutti gli errori del caso.

 

 

[C'è una ragione per la quale ti ritrovi a mangiare cibo in scatola in vestaglia ma indossando una maschera a specchio e non è goliardica e leggera come farebbe il fumetto supereroistico]

 

Damon Lindelof, nello sceneggiare il Watchmen di HBO, si rende conto innanzitutto di cosa è l'opera di Alan Moore. 

 

Dopo averne introiettato i significati più reconditi si rende conto di non poter tornare a raccontare quella storia, poiché non esiste un mezzo ben definito per tradurre a schermo quell'opera, ma quello che può fare è continuare il racconto di Moore, replicandone l'ambiente, come fosse una traccia musicale, per riarrangiarlo in qualcosa che sia una continuazione, portando allo spettatore nuovi dubbi, nuovi umori e nuove suggestioni.

 

Watchmen viene quindi spostato nel tempo verso un futuro dove le maschere hanno acquisito un nuovo significato e i protagonisti che le incarnano sono uomini e donne che, come gli eroi capostipiti del loro movimento, sono fatti di carne, sangue, paure, traumi, fragilità e incarnano le influenze alla base della loro rabbia, delle loro ossessioni e croci, identificandosi in maschere che non proteggono davvero la loro identità ma ne prendono il posto, guidando le urgenze di individui che pensano di essere sani, quando invece sono espressione reazionaria dei loro istinti più bassi.

 

Damon Lindelof ci racconta un mondo dove le maschere sono ancora il fulcro di una discussione morale in un mondo che non sa bene come mantenere il controllo e che ha scongiurato la mezzanotte pagando un prezzo altissimo e vivendo nell'incertezza di una minaccia esterna a unire un popolo i cui umori sono il vero nemico.

 

Quello che fa sostanzialmente Watchmen è costruire, come ha fatto Alan Moore, un'allegoria della società moderna, sfruttando i temi centrali di un mondo che non ha alcuna intenzione di divenire uno, rimettendo i Minutemen e i Watchmen al centro di ogni schema, origine e chiusura di un cerchio formato da un cane che si morde la coda e che, forse, sarebbe meglio abbattere.

 

 

[Lo show usa il simbolo di Rorschach per farci comprendere quanto è facile cadere in certe trappole emotive e cedere alle peggiori incarnazioni di ideologie che sfruttano facili leve]

 

Angela Abar, tanto quanto Wade Tillman aka Looking Glass, sono diretta conseguenza del mondo lasciato dai Watchmen. 

 

Sono il prodotto dello schema ordito da Ozymandias, il frutto di una società che nonostante tutto continua a popolarsi di uomini e donne in costume, cadendo vittima di vecchi errori - e qualcosa di familiare rispetto al nostro presente dovrebbe già scattare nel nostro cervello, ricordandoci la trama di una narrazione che si appoggia su un passato orribile che siamo arrivati a rinnegare e che invece è stato per lungo tempo il fondamento per ricostruire il mondo e portarlo all'unità, dopo una sanguinosa divisione.

 

L'America descritta da Lindelof è esattamente la stessa che ha dato origine ai Minutemen e agli Watchmen, portando l'autore in una riscrittura di Giustizia Mascherata, ampliandone il mito e le suggestioni, usandolo come pretesto per denunciare le idiosincrasie dell'america e delle scomode verità delle quali si compone e scompone a seconda di cosa voglia raccontare al suo popolo e al mondo intero.

 

Il piano di Ozymandias ha forse ritardato il destino del mondo ma il fatto che i Watchmen esistano e abbiano costantemente un impatto sul mondo e sui suoi abitanti, continua ad avere un peso molto ingombrante sulle dinamiche del tessuto sociale.

 

Discernere buoni e cattivi in Watchmen equivale a cercare di riempire una tanica dal fondo truccato, poiché i suoi caratteri sono tutti difettosi, tutti colpevoli e tutti innocenti e riuscire a distinguere il cuore di certe motivazioni è quanto di più complesso si possa provare.

 

Lindelof scrive personaggi che sembrano cinici e disillusi la cui profondità emotiva e molto potente e mette una protagonista spezzata ed emotivamente reazionaria al centro di una storia che ne piegherà ogni certezza, svelandone altre sfumature, introducendola a personaggi il cui apparente candore, il cui desiderio di salvare il mondo, anche se non foderato da balzane maschere colorate, è discutibile tanto quanto, o forse anche più, del suo senso di cieca giustizia. 

 

Regina King, nel ruolo di Angela Abar, interpreta non solo le estreme conseguenze del mondo lasciato dal Watchmen di Alan Moore, ma diventa anche parte del cerchio narrativo della storia, diventato eroina mascherata archetipica uguale a ogni altro personaggio, ridicolizzato nel suo essere macchiettistico senza saperlo da Laurie Blake eppure incredibilmente potente nell'incarnare gl'intenti più fraintesi della sua epoca.


A rendere interessante Angela è proprio la follia tipica di chi viene rotto da un evento talmente potente da portarlo a pensare di poter bilanciare e controllare l'ingiustizia attraverso una maschera e il suo percorso di crescita, per quanto proveniente da opere seminali a costruire la catarsi dell'eroe, non parte da un personaggio davvero positivo e puro ma si dipana partendo da un carattere rotto, difettoso e va in crescendo verso un punto d'arrivo che è genesi e conclusione.

 

 

[La protagonista interpretata da Regina King è davvero potente e affronta un percorso di crescita che non passa dall'eroe puro, ma dall'umano rotto e difettoso]

 

In tutto questo troviamo l'Ozymandias interpretato da un Jeremy Irons in una forma strepitosa. 

 

Un carattere egocentrico, un egomaniaco la cui mente brillante lo ha portato a sfidare Dio e fallire, ma il cui piano per salvare il mondo lo ha compiaciuto al punto dal ritirarsi, come il superuomo quale crede di essere e in un certo senso è, in una fortezza della solitudine che non è l'artico ma una fredda e altrettanto inospitale utopia.

 

Il racconto di Ozymandias, lo sguardo alla vicenda che ci vieno offerto rispetto al suo punto di vista, è ossessivo, follemente filantropico, facendo del personaggio deus ex machina involontario di un destino a lui avverso, vittima dei suoi desideri e di una sfida aperta con un avversario che per lungo tempo ci rimarrà invisibile.

 

La vicenda di Lindelof diventa puntata dopo puntata sempre più preziosa e lo show si contraddistingue per una narrazione capace di seguire il passo degli umori della scrittura, dipanando una storia con un cosa paragonabile, per intenti, a quello dell'opera originale, eppure portato in cima da un come e da un contesto densissimo e il cui linguaggio visivo è interessante nelle costruzione di alcune puntate che sono già storia della televisione.

 

 

 

L'episodio 6 This Extraordinary Being, ricalca le influenze visive del miglior cinema per dare un senso al fluido narrativo di una storia di origini che sfrutta dei - finti - piani sequenza per raccontare una storia di origini il cui contenuto emotivo e narrativo è inestimabile ed è già masterclass di come andrebbe portata a schermo una storia di origini e di come il piano sequenza non debba essere il vezzo di un regista eccentrico, come molti emuli e wannabe pensano, ma uno strumento estremamente prezioso a dare senso a un preciso racconto, incarnando quel concetto di trasposizione da carta a immagini del quale spesso si dibatte.

 

Un episodio che non è soltato necessario al tessuto narrativo e che non spezza per nulla l'incedere degli eventi, divenendo fondamentale e collegandosi, per impatto, al famoso episodio 8 di Twin Peaks: Il Ritorno, altra storia di origini che da più senso e dimensione al grande disegno d'insieme.

 

This Extraordinary Being ci porta tutti i dubbi di Lindelof riguardo i fondamenti peggiori della società americana, le ingiustizie dettate dall'odio e dalla crudeltà dell'uomo verso l'uomo, dando ragione al meraviglioso carattere di Laurie Blake, Spettro di Seta dei Watchmen, quando discerne la psicologia dietro la nascita degli eroi mascherati e i sentimenti di rabbia e trauma che li fondano, avvicinandosi a quell'idea anarchica del Cavaliere Oscuro dipinto da Frank Miller.

 

L'America ha davvero dimenticato la violenza e l'odio che l'ha fondata?


L'America è davvero la terra di libertà e inclusività che proclama di essere o è ancora vittima di una battaglia contro l'odio che vuole la libertà come passaporto esclusivo per pochi a discapito di molti?

 

 

[Giustizia Mascherata, il vero eroe americano, e punto cruciale di quel concetto e del racconto che l'america fa del suo presente e passato]

 

Lindelof, fino a quel momento, aveva dimostrato di saper scrivere molto bene il mondo di Watchmen tanto quanto alcuni dei personaggi cardine, ma dimostra di aver capito Alan Moore quando nell'episodio 8 A God Walks into Abar sceneggia il Dottor Manhattan magnificamente, dimostrando quanto la potenza della poetica di Moore possa essere chiusa nell'anima di quel personaggio. 

 

A God Walks into Abar è la grazia in sceneggiatura e messa in scena, un pezzo di televisione monumentale che si fa tale grazie all'abilità di Lindelof di farsi piegare dall'epica di Alan Moore e non di ricalcarlo.

 

Manhattan entra quindi in scena con tutte le sue influenze e la potenza del linguaggio di un personaggio difficile da comprendere fino in fondo, dolente e indolente, fondamentale nel suo essere davvero Dio tra gli uomini e fonte di ogni perplessità sui suoi significati.

 

Un episodio che conferma quel pensiero per il quale Dio, per noi, non è solo un concetto inconcepibile ma anche irritante, un bug a scatenare un nastro di mobius logico a provare i limiti della nostra comprensione rispetto al concetto che diamo alla realtà e al tempo, provando che Dio, in fondo, è per noi anche troppo e sostanzialmente ogni cosa che è di troppo è superflua e quanto in fondo anche Dio abbia bisogno degli uomini.

 

 

 

Un concetto paradossale portatoci da Laurie Blake e il cinismo di chi ha già visto questa storia in movimento e il cui carattere si rispecchia nell'amara barzelletta che ci racconta.

 

Watchmen si nutre lungo tutto la serie dei suoi personaggi e delle loro ossessioni, descrivendoli come uomini fatti di pulsioni fallacee e ingenue ambizioni e aspirazioni ma che sanno essere incredibilmente grandi quando imparano a contare su loro stessi, usando il cuore e non il ragionamento analitico e comprendendo quanto sia infantile ed egocentrica l'idea di poter domare il potere di Dio, anche solo pregando o illudendosi di avere controllo, per salvare il mondo.

 

Le maschere, come Dio, possono essere perciolose poiché hanno quel complesso di Bruce Wayne, tutto umano, di poter controllare tutto e, come Frank Miller insegna, di arrivare a sfociare nell'anarchia per imporre la giustizia di un uomo sulla follia di eserciti ma, come invece insegna Alan Moore, il più pericoloso è quell'uomo che brama il potere di Dio, poiché contrariamente a Dio non è nato o destinato a gestirlo e quello che farà per salvare il mondo sarà molto probabilmente orribile, deprecabile o disumano poiché alimentato unicamente dal proprio ego e atto a nutrire lo stesso - il presente vi sembra ancora più familiare, non è vero?!

 

La serie scritta da Lindelof, come l'opera originale di Alan Moore, è molto complessa e questa analisi non basta forse a capirne l'importanza e non coprirà certamente tutte le ombreggiature e sfumature.

 

Sul finale Watchmen apre completamente il suo plot che per quanto denso, per quanto affascinante, si fa grande più che altro negli umori e nei messaggi, mettendoci tra le mani la chiusura di quel cerchio aperto da Alan Moore e portando a conclusione la tesi riguardo la decadenza del supereroe.

 

 

[A God Walks into Abar... in italiano il gioco di parole si perde inevitabilmente]

 

Lindelof gioca con il tempo, con le linee narrative, con i personaggi e le loro motivazioni, creando una circolarità non necessariamente complessa ma resa interessante dalle vie del racconto e se la storia nel suo cuore potrebbe risultare ingenua e da fumetto, esattamente come quella di Alan Moore, non è lì che si trova il fulcro del suo come e del suo cosa, che forse andrebbe piuttosto ricercato nel come il tempo ci influenza, cosa scordiamo, cosa conserviamo e cosa manipoliamo al fine di ridisegnare il paesaggio del mondo che vorremmo imporre sul presente.

 

Quello che abbiamo di fronte ai nostri occhi è indubbiamente un opera preziosa e compiuta, poiché negli ultimi minuti, nelle sue immagini finali, racchiude un messaggio e un significato talmente grande e perfetto da non aver bisogno effettivamente di una continuazione.

 

Per quanto scioccante, per quanto intrigante sia il cliffhanger, il messaggio, come ne Il Signore del Male di John Carpenter, è esplicitato da Lindelof lungo tutta la serie e la morale, l'eredità di questo continuo e conclusione di Watchmen, non sta nel poi ma in quello che la vicenda ci racconta e ci consegna. 

 

Il dopo, il continuo di quel passo, non è la risposta ma il futuro che ci aspetta oltre la battaglia contro i demoni del nostro presente e solo il tempo, solo il passaggio di testimone a una nuova generazione, potrà darci davvero gli spunti necessari utili a costruire il seguito, quando verrà il momento, di questo capitolo di Watchmen.

 

Lo stesso Lindelof vuole e vorrebbe così, poiché conscio di non essere lui a dover scrivere il prossimo capitolo di uno scontro ideologico tra i dubbi peggiori del genere umano che è eterno e non ha davvero soluzione e in quanto tale deve affidarsi al futuro per trovare le sue ragioni narrative.

 

 

[Fatevi un favore...]

 

Watchmen di HBO è, come ampiamente esplicitato, uno show formidabile, un ulteriore passo, all'interno del medium televisivo, estremamente importante e un opera che, probabilmente, richiederà un tipo di analisi che lo spazio e i tempi di questa recensione non possono avere.

 

Uno show confezionato meravigliosamente, che non butta via i personaggi ma che invece li utilizza come fondamento dell'intera allegoria costruita in questo continuo del fumetto di Alan Moore, e che diventa ancora più prezioso avvalendosi della colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross, un metronomo perfettamente congeniato a scandire gli umori della vicenda e dei personaggi.

 

Il consiglio di chi vi scrive è di recuperare senza alcun timore verso l'opera originale questo nuovo capitolo di Watchmen - che per inciso può essere goduto anche senza alcuna conoscenza dell'opera di Moore - e di provare a guardare oltre il plot per osservare tutto quello che Lindelof, il team di autori e registi hanno messo in scena.

 

Perché questo è un quadro lungo nove episodi che va visto nella sua interezza senza lasciar niente indietro e che catturerà la vostra assoluta attenzione.

 

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