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Flee - Recensione: cosa vuol dire sopravvivere fuggendo

La recensione di Flee, film di Jonas Poher Rasmussen, distribuito da I Wonder Pictures

Raccontare una storia realmente accaduta nel modo giusto è un lavoro delicato, soprattutto se si tratta di una verità a lungo nascosta come quella mostrata in Flee, il documentario d’animazione diretto da Jonas Poher Rasmussen presentato da I Wonder Pictures e Unipol Biografilm Collection, candidato agli Oscar come Miglior Film Internazionale, Miglior Documentario e Miglior Film di Animazione.

 

Il protagonista di Flee è Amin, un giovane docente universitario che vive in Danimarca con il fidanzato Casper.

 

Nonostante i due si amino e abbiano intenzione di sposarsi, Amin continua a rimandare le nozze accettando incarichi sempre più lontani da casa.

 

[Il trailer internazionale di Flee]

 

 

Jonas, regista e amico stretto, comincia a chiedersi il motivo del suo comportamento, cercando di capirne le ragioni: è a questo punto che Amin decide di aprirsi e rivelare informazioni taciute del suo passato, cose di cui nemmeno Casper è a conoscenza.

 

Avendo lavorato a lungo con i documentari radiofonici, in Flee il regista decide di comunicare con Amin come se fosse una vera e propria intervista radiofonica, mettendolo a proprio agio ricordandogli subito gli anni ’90, periodo in cui i due si sono incontrati per la prima volta diventando poi gli amici di una vita.

 

Il metodo utilizzato è molto semplice: l’intervistato si stende e chiude gli occhi, come se fosse un paziente durante una seduta da uno psicologo, e comincia un processo rievocativo, le cui immagini e sensazioni si fanno sempre più chiare.

 

 

 

 

Nel caso di Flee, egli afferma che “Nel corso di tre o quattro anni abbiamo fatto più di una dozzina di interviste, ognuna derivante da una sessione iniziale di tre giorni in cui Amin ha riversato la sua storia di vita in dettagli spesso espliciti e strazianti”.

 

È così che si fa spazio una narrazione intricata e spaventosa, in cui Amin si ritrova ad alternare secondi gioiosi a momenti che risultano terrificanti anche solo enunciandoli ad alta voce.

 

Partendo da un bellissimo ricordo di sé bambino riaffronta la scomparsa del padre, ripercorrendo poi una vita in fuga dall’Afghanistan, lo spaventoso periodo da rifugiato a Mosca e quella speranza sottile di poter trovare nuova vita in Europa.

 

Con Flee Amin inizia un cammino che non si riduce al mostrare la vita di un profugo afgano ma, anzi, ad apprendere in prima persona la necessità di sviscerare il passato, demoni annessi, e cominciare ad accettarsi con onestà.

 

 

 

 

L’animazione in Flee è una scelta peculiare ma necessaria per il regista, una scelta che affonda le sue radici nel bisogno di mostrare il più possibile senza mai far sentire a disagio l’intervistato, rivelando l’essenziale per proteggere l’anonimato di Amin, sotto pseudonimo, e della sua famiglia.

 

Inoltre, è molto significativa per raggiungere l’obiettivo di approcciarsi non solo a ricordi e fatti concreti ma anche a pensieri, emozioni e stati d’animo: l’animazione, dunque, porta lo spettatore a identificare il protagonista a 360 gradi, nonostante ne conosca davvero solo la voce.

 

 

 

 

Dopo attente osservazioni sulla scelta del possibile studio di animazione, Jonas Poher Rasmussen e la casa di produzione Final Cut for Real scelgono di rivolgersi al Sun Creature Studio (che accoglie la sfida sotto la guida del direttore d’animazione Kenneth Ladekjær) con un contributo anche da parte dello studio di animazione Vivement Lundi! (che si dedica a sfondi e compositing) e del direttore artistico Jess Nicholls, particolarmente incuriosita dal progetto.

 

L’idea del regista è stata quella di dividere Flee in due stili di animazione diversi: uno che rappresentasse il livello reale, ovvero i fatti nella loro concretezza, e uno per il livello astratto, che riguarda principalmente i pensieri di Amin.

 

 

 

 

Da questa base di partenza il team creativo segue la sceneggiatura e, attraverso animazioni a colori 2D convenzionali, mette in scena gli eventi della vita di Amin in modo pulito e semplice, usando consapevolmente il colore.

 

Per contrapposizione vengono rappresentati in modo grezzo i suoi stati d’animo e le sue sensazioni: man mano che questi ultimi si fanno più dolorosi, alle immagini viene negata la brillantezza precedente, lasciando sagome sempre più confusionarie in bianco e nero.

 

Per sottolineare con chiarezza il periodo di cui si parla il tutto è intervallato, come già accennato in precedenza, da brevi immagini di repertorio tratte da cinegiornali d’epoca e filmati d’archivio, ricercate con assoluta meticolosità.

 

 

 

 

Queste scelte singolari e specifiche portano Flee a raggiungere uno stadio molto particolare in quello che è il documentario d’animazione, risaltando nella sua completezza tra idee e realizzazione.

 

Bisogna sottolineare, ancora una volta, quanto l’animazione non si limiti a un processo creativo interessantissimo ma sia serva di una necessità più grande: quella di raccontare una verità.

 

La storia di Amin è sua e, allo stesso tempo, di tutti: si fa complice di una realtà appartenuta e che appartiene tutt’ora a tante, tantissime persone; basti pensare che i suoi orrori sono parte di un percorso purtroppo condiviso dalla famiglia e da tante altre vite che la sua vicenda sfiora appena.

 

 

 

 

“Fuggire” non significa solo scappare per trovare un luogo in cui vivere una vita normale senza aver paura di essere picchiato o ammazzato, ma scappare anche dalla propria memoria, cercando una consapevolezza interiore e una tranquillità intima.

 

Ci tengo a sottolineare più volte il fatto che la genesi di Flee sia originata da una grande amicizia e che riesca a dare risalto anche a tante cose positive, come la dolcissima storia d’amore e rispetto tra Amin e il suo futuro marito o l’accettazione dell’omosessualità da parte della famiglia.

 

Eppure è impossibile non pensare a quanta sofferenza ci sia stata nell’aprirsi e nell’abbandonare ogni bugia, nel terrore che chi ti sta ponendo le mani e si offra di aiutarti a un certo punto possa abbandonarti sapendo chi sei stato e cosa hai fatto, proprio quando nell’attimo più critico riporti alla luce un dolore assopito ma sempre all’erta. 

 

Questa realtà sopracitata che Flee si pone di sottolineare non è una novità, anzi.

È qualcosa di noto e tangibile con cui siamo a contatto ogni giorno, che circonda le nostre vite anche se spesso ce ne dimentichiamo o facciamo finta di non vedere.

 

In questo momento storico particolarmente sofferente, Flee abbraccia l’umanità intera e ricorda che tutte le identità sono uniche, egualmente degne di vivere, unite dallo stesso bisogno di sentirsi amate e avere un posto nel mondo da poter chiamare casa.

 

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