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Beau ha paura - Recensione: non importa quanto crescerai, resterai sempre mio figlio

Come un moderno Franz Kafka, Ari Aster firma la sua personale “Lettera al padre”, insegue il topos letterario novecentesco dell’inetto e con Beau ha paura trasforma splendidamente un racconto di formazione in uno di sfaldamento 

Beau ha paura è al cinema e già è grande la confusione fra gli spettatori all’uscita delle sale cinematografiche: la situazione per i critici è eccellente. 

 

Questa recensione necessita della lettura della sua controparte poco entusiastanella quale Beau ha paura viene presentato nel suo complesso anche per coloro che non ne avessero già avuta visione.

 

Diverso è il caso dell’articolo che segue, nei quali saranno presenti numerosi spoiler.  

 

[Il trailer di Beau ha paura]

 

 

Assenza: rumorosa presenza 

 

Alcuni antropologi sostengono che uno dei tratti distintivi della paura che accomuna tutte le civiltà finora studiate sia la paura per i rumori intensi. 

 

Beau ha paura si apre con un boato, è l’esperienza acustica vissuta in prima persona del momento più rischioso della vita intera: la propria nascita. 

Un fascio di luce acceca il neonato.

Una madre lo accoglie nel mondo lamentandosene ed esprimendo la forte proccupazione per il fatto che non lo si sente piangere.  

 

Da quel momento, oltrepassato lo stato intrauterino, Beau non sarà mai più solo; con lui, in lui, ci sarà per sempre la voce di sua madre a condizionarne le azioni o la percezione che egli ha di esse, anche se lo spazio fisico che abita può sembrare spesso suo e suo soltanto - un esempio è che egli vive da solo in un appartamento. 

 

Lo abbiamo visto nascere, ma il cordone ombelicale non è mai stato realmente reciso e la voce della madre lo raggiunge costantemente, come del resto ci rivela la rubrica del suo cellulare, zeppa di chiamate fra i due.  

Beau vive con difficoltà lo stare solo con se stesso, per l’intera durata del film non sarà quasi mai statico: si rivolta nel suo letto nel sonno, corre di contesto in contesto, si sposta su di una barca a remi.

I rari momenti di staticità assomigliano piuttosto a uno stato di fermo nel senso giudiziario del termine, durante i quali viene sempre sorvegliato e deve rendere conto della sua posizione e intenzioni.

 

Due soltanto sono i contesti in cui finalmente si arresta, e coincidono con i momenti più introspettivi del suo percorso: sdraiato durante una sessione psicoterapeutica e seduto di fronte a una pièce teatrale nella quale si sente rappresentato. 

 

 

[Un eccelso Joaquin Phoenix regge la scena per i ben 179 minuti di Beau ha paura]

 

 

L'uomo-bambino, il figlio

 

In fondo Beau non è più che un ragazzino. 

Ogni bambino sente di sperimentare per la prima volta un senso di proto-indipendenza dai genitori quando inizia le scuole elementari, salvo accorgersi molto presto che le nuove figure adulte di riferimento che incontra a lezione sono in diretto contatto con i loro genitori, e che le valutazioni didattiche delle loro prestazioni e della loro condotta vengono discusse fra scuola e casa. 

 

Vi invito a effettuare un piccolo esperimento mentale: se al posto del cinquantenne attore Joaquin Phoenix provassimo a sostituire il corpo e il volto di un bambino come protagonista della totalità delle vicende che vediamo accadere in Beau ha paura, probabilmente buona parte del senso di straniamento che come spettatori abbiamo vissuto si dissolverebbe. 

Arriveremmo persino a reputare il film appartenere a un genere del tutto differente.

Al contrario, in questi giorni intellettualizziamo Beau ha paura e discettiamo di surrealismo kaufmaniano e della sensazione orror-comica che comporta l’istanza psicanalitica del perturbante. 

 

Tutto ciò proprio per via della contraddizione fra corpo e lineamenti adulti di Beau e il vederlo incedere nel suo pigiama azzuro.

 

 

[I quattro volti di Beau ha paura]

 

 

Beau vive bloccato allo stato prepuberale.

 

Non ho le competenze necessarie per approfondire in modo adeguato l’apporto della figura materna riguardo questo aspetto, sebbene non sia difficile sospettarne le responsabilità; mi è invece possibile sottolineare la maestria registica di Ari Aster nel disseminare lungo tutto Beau ha paura degli espedienti visivi simboleggianti il controllo: la telecamera di sorveglianza posata sull’intera vita di Beau, il braccialetto elettronico, la rigidissima posologia delle medicine prescritte, tutti elementi che condizionano e delimitano il perimetro di azione dell’uomo-bambino.

 

Si potrebbe sospettare che le medicine altro non siano che allucinogeni volti a impietrire il coraggio di Beau e il suo spirito di iniziativa nell’affrontare il mondo esterno. 

 

Così come numerosi sono i simboli della ritenzione, come il letto singolo in cui è costretto, oltre ovviamente al più condizionante di tutti: lo stato di anorgasmia, che inchioda l’immaginario di Beau all’unico rapporto intimo di tutta la sua vita, quello avvenuto durante l'infanzia in una vacanza in crociera; soltanto il primo dei rapporti interrotti dalla madre. 

 

Il tentato matricidio non a caso segue l’unico rapporto sessuale consumato dall’uomo in Beau ha paura, passato ora allo stadio di adolescente.  

Potremmo allora immaginare un lieto fine per il bambino: lo smarcamento dall'ombra materna e l'inizio della vita adulta.

 

Sensazioni di speranza che avevamo conosciuto anche nel finale dell’ormai classico The Truman Show, citato nel riferimento al tentativo di fuga finale di Beau su un’imbarcazione; questa culmina con la resa dei conti nei confronti dell'archetipo materno e, contro ogni speranza, con una progressiva regressione dell’uomo-bambino fino allo stato di neonato e, oltre, all’implosione nell’liquido amniotico dell’origine.

 

Un fagocitamento durato una vita intera.     

 

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