#articoli
Bisogna essere pronti per approcciarsi a Speak No Evil.
È per questo che una prima parte di questo articolo sarà dedicata a una messa in guardia-invito per i curiosi avventori: deciderete voi se impelagarvi in questa sfidante visione, avendo valutato tramite i seguenti - spero utili - approfondimenti senza spoiler la vostra compatibilità con il film, disponibile in Italia sul canale Midnight Factory di Prime Video.
Nella seconda parte dell’articolo darò il via libera a un’analisi che entrerà nei dettagli della trama, dedicata a chi ha già visto il film oppure non ha intenzione di vederlo ma è rimasto in qualche modo intrigato da ciò che ha letto.
Se vorrete dare una chance a Speak No Evil spero tornerete a recuperare la seconda parte per dirmi cosa ne pensate.
[Trailer internazionale di Speak No Evil]
Durante una vacanza in Toscana con loro figlia Agnes, i danesi Bjørn e Louise conoscono e fanno amicizia con gli olandesi Patrick e Karin, anche loro genitori di un figlio, Abel.
Sull’onda della nostalgia per questa piacevole fuga dalla quotidianità, Bjørn convince la moglie - abbastanza restia, d’altronde si tratta di persone considerabili poco più che sconosciuti - ad accettare l’invito della coppia ad andarli a trovare per qualche giorno in Olanda.
Inutile dire che la coppia si rivelerà molto diversa da come si è presentata in Italia, e l’affabilità e gentilezza cederanno presto il posto a nefandezze che, da scortesie innocenti, si faranno sempre più insopportabili.
[La cena con i "noiosi" amici danesi in Speak No Evil]
Speak No Evil è un film difficile da sostenere, sotto molteplici punti di vista.
La prima considerevole e più irritante sfida che ci pone è quella di tollerare i protagonisti.
A più riprese ci si trova con la tentazione di scuotere lo schermo e urlare ai danesi: “Oh, ma vi svegliate? Levate le tende, subito!”.
Di questo fastidio nei confronti dei personaggi vi potrebbe capitare di leggere in giro, in quanto elemento che ha fatto scendere di molto le valutazioni del film, ma a mio parere è un fatto che è necessario accettare come premessa degli intenti del regista, che con il fratello ha scritto anche la sceneggiatura: l’esasperazione dei comportamenti non tradisce la loro profonda aderenza alla realtà e serve come molla per il racconto di un orrore “a portata di mano”, la cui insensatezza poggia le basi sulla semplice possibilità stessa della sua facile attuazione.
Il male - che in Speak No Evil è Male puro, senza spiegazioni, senza giustificazioni - non ha nulla di straordinario, non annuncia la sua presenza con eloquenti fanfare: è banale ed emerge dalle maglie di una quieta società che si affida alle regole e a una fiducia insensata nella bontà dell’Altro.
Se si è disposti ad accettare l’orrore per cortesia, per non offendere chi ai nostri occhi è stato ben disposto nei nostri confronti, questo la dice lunga sulla smodata importanza e sul rispetto sproporzionato che diamo alle convenzioni sociali.
La narrazione si dipana lenta ma sostenuta, con uno stridente e nefasto senso di inquietudine che mai ci abbandona, a ricalcare la progressiva saturazione a cui arrivano i protagonisti.
La violenza, anche quando non arriva al fisico, è ciò che permea il racconto nelle sue sfumature verbali, psicologiche, di distruzione della privacy e dei necessari confini personali, soprattutto tra persone pressoché sconosciute.
Quando si sfilacciano i rassicuranti bordi degli spazi intimi si fa largo una disattesa degli schemi comportamentali, che manda in tilt certezze e aspettative porgendo il fianco alla melliflua entrata in scena del Male, alla cui presenza ci si ostina a non voler credere, anche di fronte all’evidenza più evidente.
Il linguaggio, come accennato, diventa il fulcro di Speak No Evil nel suo intrecciarsi con il discorso portato avanti sulle convenzioni sociali.
Incontriamo i personaggi, danesi e olandesi, mentre sono in vacanza in Toscana: la loro reciproca estraneità si inscrive nella loro presenza su suolo straniero e la loro conoscenza si sviluppa in un ambiente italiano e in quella che non è la loro madrelingua - l’inglese.
Il secondo livello più profondo di isolamento sarà quello che caratterizzerà solo la coppia danese, nel momento in cui deciderà di accettare l’invito di passare qualche giorno in Olanda: qui Patrick e Karin si trovano su un terreno familiare e acquisiscono immediatamente una posizione di potere nei confronti di Bjørn e Louise.
Un terzo livello del discorso annulla addirittura il linguaggio stesso: il mutismo di Abel, il figlio degli olandesi, assume un’importanza narrativa ma non solo, andando a configurarsi come fine assoluta delle possibilità comunicative.
[In Speak No Evil Karin continua a impartire ordini in olandese ad Agnes, sotto gli occhi di un'infastidita Louise]
Il linguaggio funge da elemento distanziante e al contempo di cautela e rispetto nei confronti dell’altro, che parla un’altra lingua.
Vi è mai capitato - soprattutto se non siete fluenti - di parlare in inglese con una persona non anglofona e provare la sensazione di dovervi muovere con i piedi di piombo, come se il rapporto tra voi e l’altro si reggesse su delle fondamenta talmente instabili che possono crollare da un momento all’altro?
Avete mai provato quella sensazione di imbarazzo quasi ingiustificato, che vi porta a soppesare ogni cosa che esce dalla vostra bocca, ogni gesto e ogni risata?
Penserete che siano delle mie fisime, ma a mio parere è questo tipo di sensazione che in parte spiega l’atteggiamento di timore quasi reverenziale dei danesi nei confronti degli olandesi, che fa sì che la cortesia e la convenzione sociale diventino un'àncora a cui aggrapparsi per tenere a galla questo vacillante rapporto: se si comportano “per bene” riescono ad instaurare un rapporto di amicizia più saldo, giusto?
Se si comportano “per bene” niente può andare storto, o no?
Speak No Evil non avrebbe funzionato così bene se le protagoniste fossero state due coppie danesi o due coppie olandesi.
Lo scontro tra due mondi linguistici diversi diventa il motore essenziale del meccanismo narrativo, soprattutto attraverso l’uso di specifiche scelte del racconto, che tratterò più avanti nella parte spoiler di questa analisi.
Cosa funziona così bene, in questo film?
La resa cinematografica dell’ineluttabilità del disastro, resa da un comparto tecnico ottimo: la messa in scena che fa un uso inquietante dei campi lunghi e lunghissimi, il sonoro e la fotografia che fanno dei contrasti il loro punto di forza.
Speak No Evil è secondo me uno degli horror più belli e interessanti dell’anno, assolutamente da recuperare se volete mettervi alla prova, in tutti i sensi.
Ma proviamo a guardare più da vicino, con inevitabili spoiler, la costruzione narrativa e tecnica di questo terribile racconto.
Attenzione, Spoiler: si consiglia di proseguire la lettura solo alle persone che hanno già visto il film
[Patrick e Karin in Speak No Evil, nella veste di povere vittime della scortesia dei danesi]
Speak No Evil si apre con un’anticipazione - cromatica e visiva - del finale a cui segue un contrasto di luce, colori e senso, tanto improvviso quanto graduale è invece il cambio di registro sonoro: una coda di musica minacciosa connota sinistramente un inizio all’apparenza tranquillo e sereno in una piscina.
Si tratta di un inizio potente, in cui vengono messe sul tavolo tutte le carte - anche se non esplicitamente - e in cui viene settato un tono ben preciso, che non lascia presagire nulla di buono dal punto di vista di ciò che accadrà a livello narrativo.
Il tema delle convenzioni sociali e della cortesia a tutti i costi - il vero cuore del film - viene presentato “in a nutshell” in una semplicissima ma esplicativa scena.
Bjørn dice insofferente a Louise che quella sera a cena dovranno in tutti i modi riuscire a evitare di sedersi vicino a un’altra coppia, che si trova in vacanza nel loro stesso posto e che li ha esasperati nei giorni precedenti con delle lezioni non richieste di cucina.
Stacco.
Li vediamo a cena mentre li ascoltano parlare di come si preparano i ravioli (sarà evidente il contrasto in una scena successiva, in cui vedremo i danesi a cena con gli olandesi tra risate e bevute).
Qualcuno li ha obbligati a questa evidente tortura?
Il senso del montaggio è evidente: la cosa più probabile è che i due si siano sentiti “costretti”, per educazione, a mantenere la piccola tradizione vacanziera serale per quieto vivere e per non offendere nessuno, soprattutto qualcuno che è stato così gentile con loro.
Ciò a cui può portare questo attaccamento istintuale all’educazione lo vedremo nel corso di Speak No Evil.
L’apparente simpatia di Patrick e Karin, la coppia olandese con cui i danesi cominciano a legare, è un’arma potentissima: il fascino e la gradevolezza vengono inconsciamente associati al Bene, anche se la Storia ci insegna altrimenti; Ted Bundy rules.
Oltre alla simpatia, il fatto che Patrick sia un medico sembra rassicurarli, ulteriore garanzia di bontà e affidabilità: questa connessione tra la posizione sociale e l'inclinazione personale ha un che di ingenuo e vagamente sinistro.
Soffermiamoci sul cast di Speak No Evil.
I danesi sono Morten Burian nei panni di Bjørn e Sidsel Siem Koch in quelli di Louise: il primo è il volto perfetto dell’uomo desideroso di compiacere, che continua a mettere in discussione la propria virilità come se avesse la coda di paglia; la seconda è una donna perennemente tesa come una corda di violino e, se non più perspicace del marito, sicuramente meno accomodante (più psicologicamente che nei fatti, ahimè).
Gli olandesi sono interpretati da Fedja van Huêt e Karina Smuulders; lui è la faccia da schiaffi perfetta per interpretare Patrick: belloccio, smargiasso, simpatico e adorabilmente schietto, ciò che ci si potrebbe aspettare da un tipo così è che il suo essere un pallone gonfiato si riveli tutto fumo e niente arrosto, ma non sarà così.
Lei è una Karin abbastanza silenziosa ma sempre sorridente, minacciosa per la fredda perentorietà, per il suo agire imperterrita secondo i suoi piani.
Un cast perfetto, considerato che il film è totalmente portato avanti dalle interazioni tra i personaggi.
Il tema dell’isolamento linguistico e non solo è perfettamente reso dalla scena in cui la macchina a mano segue Bjørn che, camminando concitato per le stradine toscane alla ricerca di Ninus, il pupazzetto della figlia Agnes, chiede in inglese ad alcuni italiani che non lo capiscono se per caso lo abbiano trovato.
L’ansia e l’isolamento vengono brutalmente contrapposti alla bellezza del paesaggio e la sceneggiatura introduce sapientemente la debolezza della bimba nella forma del coniglietto tanto amato, che tornerà - letale - più avanti nella storia.
Come fanno le sceneggiature migliori, sono diverse le mine vaganti preparatorie che vengono gettate nel primo atto di Speak No Evil, prima che scoppi definitivamente il caos (un’altra è, ad esempio, il vegetarianismo di Louise): le vediamo noi come gli olandesi e, se diventano anticipazioni inquietanti per noi, diventano armi pericolose nelle loro mani.
Il calore della virata gioiosa della vacanza contrasta prepotentemente con il buio del ritorno a casa in Danimarca: il palazzone isolato dalla severa struttura geometrica, con tante luci accese alle finestre rimanda a un rientro nei ranghi, a una rassicurante - ma a tratti annichilente - quotidianità fatta di appuntamenti e abitudini.
Questo scarto che la vacanza ha creato in particolare in Bjørn è segnalato dall’inquietante musica che riveste le scene di una quotidianità teoricamente felice: la recita di Agnes e una cena con amici assumono dei connotati lugubri, come se li vedessimo dal punto di vista psicologico soggettivo di Bjørn, che sembra bramare uno strappo al solito tran tran, nella fattispecie accettare l’invito degli olandesi a passare qualche giorno a casa loro, rivivere quel brivido di vita vera provato in Toscana con quella coppia tanto simpatica e, in qualche modo, eccitante.
Invito che, nonostante una Louise molto restia, ovviamente accetterà, condannando inconsapevolmente la propria famiglia al disastro.
Anche la regia e il montaggio contribuiscono a suggellare quella di Bjørn in quanto pessima scelta: lo zoom-ralenti accompagnato da una musica minacciosa sulla foto di gruppo scattata in vacanza, con il seguente stacco di montaggio sui danesi a bordo della nave diretti verso l’Olanda, la dissolvenza incrociata che dalla schiuma del mare ci porta senza soluzione di continuità a un campo medio della casa di Patrick e Karin, che a causa dell’effetto tecnico sembra andare in fiamme.
Forse la cosa più inquietante di Speak No Evil, quella che fin da subito ci fa drizzare le antenne del sospetto, è il fatto che Karin cominci di tanto in tanto a rivolgersi direttamente ad Agnes, la figlia dei danesi, parlandole in olandese.
Lingua che la bambina - come sottolinea una stranita e preoccupata Louise - non conosce, ma che accoglie in quanto proveniente da un’autorità, da un’adulta.
Con il senno di poi rabbrividiamo ulteriormente, in quanto quella a cui Karin sottopone Agnes è una sorta di “prova generale”, una preparazione per ciò che la aspetta: già dalle prime battute Karin prova a isolare Agnes, tirarla dalla loro parte dotandola di una posizione privilegiata, che potrebbe ai suoi occhi infantili passare come posizione di favorita, lusingandola e “vincendola”.
[Gli uomini di Speak No Evil lasciano uscire il loro lato più selvaggio]
La più accecante red flag rimane Abel, il figlio degli olandesi, e il modo in cui loro vi si rapportano.
Il mutismo del bambino viene facilmente spiegato nei termini scientificamente rassicuranti di “aglossia congenita”.
Così come accade continuamente nel corso di Speak No Evil le stranezze, le incongruenze e i piccoli orrori vengono giustificati e accettati alla luce di talvolta maldestre, talvolta più scaltre e credibili spiegazioni, che puntano sulla disperata volontà dei danesi di crederci.
Questa fiducia quasi ebete rivela una tendenza condivisibile, che ci porta a voler rifiutare l’esistenza del Male puro, gratuito, dato che non comprendendone la ragione (che non c’è) non si è in grado di accoglierne la semplice presenza.
La violenza fisica e psicologica perpetrata dai “genitori” su Abel allarma noi e i danesi, come inevitabilmente è in grado di allarmare la brutalità nei confronti dei bambini: è in particolare questa violenza e soprattutto la sua incapacità di convincere Bjørn e Louise alla fuga, a far male al cuore e all’empatia nei confronti dei danesi.
Violenza che avrebbe dovuto essere a tutti gli effetti la goccia che fa traboccare il vaso, ma al cui trabocco il metaforico vaso riesce in qualche modo a ri-svuotarsi ancora abbastanza per contenere altra nuova, fresca acqua.
Bjørn è quello che - almeno inizialmente - è più ben disposto a tollerare il comportamento inaccettabile degli olandesi: prova una sorta di strana ammirazione e desiderio di mimesi per quella coppia così ben assortita conosciuta in vacanza, vede in loro quello che evidentemente crede che lui e Louise non siano più.
In particolare Patrick riesce a creare con lui un terreno di falsa comunanza, che trova espressione nell’esternazione di una feralità che continua ad appartenere all’Uomo, e che nella vita di tutti i giorni non si è in grado di esternare.
Ma questa espressione dell’uomo-selvaggio non trova una corrispondenza tra i due uomini, perché per uno è un’insoddisfazione lecita nei confronti dell’irreggimentata vita sociale, per l’altro è il Male.
Bjørn li trova eccitanti e la sottile invidia per quello che hanno lo rende parzialmente cieco all’orrore che si trova davanti, continuamente rigettato, alle costanti micro-violenze e micro-maleducazioni, che con il passare dei minuti diventeranno sempre meno "micro".
E non solo.
Come se non bastasse i danesi vengono fatti passare dalla parte del torto: nel momento in cui si trovano a spiegare davanti agli olandesi la loro indignazione, la loro legittima offesa, il loro più che giustificato desiderio di allontanarsi dal disagio e dall’orrore che gli è stato sottoposto, ecco che tutto sembra irrilevante, tutto sembra ridimensionarsi, quelli che sembravano inenarrabili affronti diventano delle piccolezze, in un processo che ha molto del gaslighting.
Si ricollega il tema della colpa e dell'incapacità di essere genitori degni, in quella che appare come la più folle delle giustificazioni, qualcosa che - nonostante questa sia la parte spoiler dell'articolo - lascio a voi scoprire.
I ruoli di Speak No Evil si ribaltano: Patrick e Karin diventano le vittime, i padroni di casa ingiustamente puniti dall’irriconoscenza dei loro ospiti.
[Speak No Evil: Bjørn scopre la verità sugli olandesi]
Eccoli, i danesi: moralmente costretti a rimanere sempre sull’orlo della fuga salvifica, sempre di ritorno dai loro aguzzini.
Non si contano sulle dita di una mano le volte in cui avrebbero potuto sfuggire al loro destino, ma eccoli sempre a dare un’ultima chance a quelli che per loro sono, in fin dei conti, degli sconosciuti.
È una situazione estremizzata e perciò molti hanno mal tollerato la “stupidità” dei danesi di Speak No Evil; rimane tuttavia una rappresentazione metaforica dell’insensata fiducia nel Bene, dell’affidamento che si fa sulle buone maniere, sull’educazione, come se questi valori possano in alcun modo disinnescare la violenza o armarci contro di essa.
Le ultime barriere di incredulità nei confronti della stessa esistenza della violenza e del Male gratuito e ingiustificato.
“Why are you doing this?”
“Because you let me”
Vi rispettiamo: crediamo che amare il Cinema significhi anche amare la giusta diffusione del Cinema.
5 commenti
Paolo D'Onofrio
1 mese fa
Si direbbe che il regista sia del tutto controcorrente rispetto al permissivismo, alla tolleranza e al "buonismo" , parola quest'ultima molto usata nel gergo politico attuale, e per questo monta nel suo film una dinamica così perversa e poi efferata.
In particolare io mi sono chiesto se il regista non abbia voluto inserire una più specifica provocazione critica contro la stessa civiltà nordico occidentale che spinge incessantemente al perbenismo e al politicamente corretto e trascura completamente il principio di responsabilità verso se stessi. Ad esempio nel film il "baby sitter" che poi "si occupa" della piccola Abel nella scena finale è un arabo/ magrebino e potrebbe simboleggiare la pericolosità dell'eccessiva tolleranza, in società come quelle nordiche. Il regista ci spinge ad assumere una posizione di disapprovazione e sconcerto nei confronti dei danesi ; siamo tutti d'accordo alla fine: "che se la sono andati a cercare". Però al tempo stesso , qualsiasi morte o violenza derivi nella nostra società da un'eccessiva fiducia nei confronti dell'estraneo, (e sono molti tipici casi anche se non tutti) , non viene mai analizzata criticamente sotto questo aspetto , ci limitiamo a dire (cosa che è vera ) che il male è sbagliato e le vittime sono vittime. Senza che noi ce ne accorgiamo , il regista ci porta ad accettare implicitamente una "vittimizzazione secondaria" dei protagonisti, sul piano psicologico, smascherandoci abilmente.
Rispondi
Segnala
Gianluca Sartori Sartori
1 anno fa
Rispondi
Segnala
Gianluca Sartori Sartori
1 anno fa
Rispondi
Segnala
Emanuele Fois
1 anno fa
Questo riferimento lo vedo posto in maniera provocatoria e ribaltata, perché normalmente il detto biblico invoca al perdono e all'esame di coscienza prima di punire e "parlare male degli altri" (da qui speak no evil), mentre nel film è proprio la coppia che non volendo parlare male alla fine fa la brutta fine che fa.
Rispondi
Segnala