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- Are we not Horses?
- We are Men!
Sergio Leone era il tipo di regista che sul set curava ogni minimo dettaglio.
La messa in scena era composta spesso da oggetti che Leone stesso recuperava in mercatini dell'antiquariato.
L'idea leoniana, come rispose una volta alla bonaria critica di un tecnico del set, era che "ar cinema se vede tutto".
È oggettivamente impossibile dargli torto e troppo spesso i dettagli sul grande schermo sono così inconsistenti da essere l'unica cosa da notare, come piazzare un bicchiere di latte al centro di una stanza buia e illuminarlo con un'insegna al neon con scritto "notami: sono importante per qualche ragione spiegata dalla voce narrante".
Ne siamo così disabituati che quando un nerd nota un dettaglio che ci deve essere, ci mancherebbe altro, parte inesorabile la catena della speculazione.
Un sintomo che mostra non tanto l'attenzione del pubblico, ma la sua spasmodica voglia di riempire il vuoto malcelato - e vi assicuro che quando esploderà, esploderà.
Tornando a Sergio Leone, bisogna dire quanto la sua presenza avrebbe funzionato alla perfezione nel corollario di personaggi di BoJack Horseman: il nome è già propedeutico a quanto si potrebbe vedere a schermo, o forse no, eppure il collegamento non è questo.
La quinta stagione di BoJack Horseman è, senza dubbio, lo show più cinematografico, insieme al Twin Peaks di David Lynch, che ci sia in televisione.
Sempre seguendo quel principio de "ar cinema se vede tutto".
Anche se il pubblico, sfortunatamente, è così vittima della pronosticata devoluzione da non aver nemmeno goduto dello show su una bella televisione da salotto e sembra che in troppi non si siano resi conto di quanto lo schermo, in ogni singola scena, sia pregno di significati.
Non che le stagioni precedenti fossero scarne, ma urge quanto mai sottolineare lo tsunami d'informazioni vomitato in questa quinta incarnazione, per via di un duplice significato e di uno Leoniano.
Per quello Leoniano vi basta andare sulla pagina di Cinefacts e scoprire quanti dettagli di secondo piano abbiano minato, per sempre, la credibilità di una scena, incrinando la magia del racconto fino a spezzare la costruzione che il cinema, quello dello schermo avvolgente, dovrebbe curare nel dettaglio.
In BoJack Horseman la narrazione viaggia quasi su due piani.
C'è un tema principale, ci sono quelli secondari di comprimari e nuove figure, ci sono le parentesi da episodio e poi lo sfondo, il mondo che si anima in secondo piano.
Spesso, dove non arrivano le battute, arriva la comicità più antica del mondo, ovvero quella per azioni e simbolismi, quella di Buster Keaton e Charlie Chaplin.
Dove non arriva il dramma delle reazioni sopra le righe e le azioni scomposte arrivano gli sguardi, i momenti di silenzio, e dove il racconto non spiega ci pensa una scatola con una scritta buffa ed uno sgabello rosso, a dare tutto il sentimento che serve.
Un maiale antropomorfo, solo ed avvilito al tavolo di un ristorante, mentre dalla parte opposta del quadro una coppia si gongola, pregustando una testa di maiale glassata piazzata al centro di un vassoio d'insalata.
Quello che accade in secondo piano è la verde insalata finemente condita, il tecnicismo per somministrazione subconscia che assume tutto il valore del mondo.
La quinta stagione mette lo spettatore al cospetto di una serie glam che fa satira dell'universo più glam di tutti, veicolandolo attraverso un cinismo ed un arguzia che nessun'altro, in quella stanza antipanico adibita a party, possiede, ma che tutti pensano di avere.
Una comicità davvero caustica, vomitata sul pubblico sottostante da un vecchio comico, impegnato ad affrontare quella montagna emotiva che prova a scalare da anni.
La cima è vicina, ma l'aria è sempre più rarefatta, le mani fanno male, sono rugose e rigide, le allucinazioni di un passato che è un po' una maledizione si fanno sempre più presenti, concrete, quasi palpabili.
Il pubblico è in piedi, ammaliato dalle arguzie, sorride delle sue stesse imprudenze, ma il comico non riesce più a divertire se stesso. La cura ha alzato le difese naturali della montagna ed un sorriso a scacchi, per quanto perfetto, non lo salverà.
Il comico comincia a cadere e, questa volta, la distanza non è fra la parete e il suolo, ma fra l'appiglio viscido e l'oblio.
Allora BoJack diventa terribilmente adulto.
Tutti i personaggi, dai più vanesi a quelli più umani, hanno raggiunto una maturità di non ritorno, quella che ti costringe ad affrontare qualsiasi cosa tu abbia nascosto sotto il tappeto.
Le cose ti colpiscono più forte, il passato riaffiora distante ed il contraccolpo delle scelte arriva a bersaglio.
Le maschere di BoJack, da Todd a Princess Carolyn, da Mr. Peanutbutter a Diane, sono ora piene di quei loro dettagli in secondo piano, riflettendo opacamente una superficie che li vede, solo ad una prima lettura, sempre gli stessi.
E BoJack?
BoJack è il collante delle parti peggiori di quello che siamo, temiamo di essere ed il potenziale inespresso di ciò che potremmo e non siamo o non crediamo di poter diventare.
Il suo personaggio è un sacco di vetri rotti, intrappolato in una fuga psicogena potente e bipolare, dove il suo io cosciente si accende e si spegne, obnubilandosi, quando fa troppo male, con tutto quello che può fargli male, così tanto male da non rendersene conto.
BoJack perde la ruvida gentilezza indie di Sofia Coppola e guadagna le paranoie di chi scivola inesorabilmente in un incubo alla Terry Gilliam.
La quinta stagione è dolente, geniale nella rappresentazione delle idiosincrasie del mondo moderno e di quella Hollywoo che riesce, involontariamente, a rappresentare le parti più superficiali di una società così assorbita in se stessa da non riconoscere più la sua follia.
Molestie sessuali, scandali mediatici, rinascite, ricadute, moralità da fascia del mattino, frasi fatte e questioni deontologiche prestate alle psicosi di massa.
Hollywoo è piuttosto un incubo lovecraftiano illuminato dal sole della California, un diverso Seme della Follia il cui germoglio orrorifico, il viaggio carpenteriano al centro del concetto di realtà, viene riconvertito in un dramma satirico dove i protagonisti, per quanto razionali possano essere, finiscono con l'affogare in una follia che non lascia scampo.
Il mondo è posh, prozac dipendente, represso, bugiardo, si regge su di un cartongesso sociale da teatro di posa e quando i protagonisti cercano di far valere le loro e le altrui verità, non possono fare altro che impazzire.
Mi ritrovo quindi come Sam Neill, seduto al buio di una sala, mentre il film della realtà viene proiettato sullo schermo ed io non posso fare altro che ridere dello spettacolo, felice di essere parte e non più difetto che ha la pretesa di ragionare sulla realtà dell'irrealtà.
BoJack Horseman, Stagione 5, trova il suo enorme pregio nell'essere una serie capace di leggere splendidamente il tempo presente, ponendosi allo stesso tempo nei tempi ed oltre i tempi.
L'unico show capace, dopo cinque anni, di non cristallizzarsi nel suo archetipo.
Si evolve senza inseguire, ma facendosi inseguire dal presente, essendone parte integrante e baluardo, critico e giullare, outsider e, al tempo stesso, così maledettamente pop.
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