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Minari - Recensione: gli spettri del sogno americano

Il sogno americano vissuto da una famiglia di immigrati sudcoreana

È curioso come questa nuova e strana stagione cinematografica abbia inizio con un film come Minari di Lee Isaac Chung

 

Un film intimo e grazioso, il diario scritto con la terra e il sudore di un regista statunitense per nascita, ma nei cui geni è impressa la sua origine sudcoreana.

 

Quest'opera dai toni autobiografici è stata nominata a sei Premi Oscar 2021 e ne ha vinto uno solo, grazie alla splendida interpretazione di Yoon Yeo-jeong, già nota agli appassionati di Cinema orientale grazie alle numerose collaborazioni con Hong Sang-soo, nel ruolo della nonna Soonja.

 

[Il trailer di Minari]

 

 

Perché è così curioso?

 

Partiamo dal titolo: il minari è il prezzemolo giapponese capace di crescere nei posti più disparati, è comune, ma resistente. 

 

Il minari è un ingrediente della tradizione coreana, è il tocco di saggezza di una nonna - anche se è un po' sboccata - e la curiosità di un bambino iperattivo ma fisicamente fragile.

Il minari cresce rigoglioso lì dove nulla è rimasto, quando sembra che ogni cosa sia perduta. 

 

È romantico pensare che sia un film privo di epica ed eroi ad accogliere il pubblico in sala, tante piccole teste che fioccano lì dove c'è stata desolazione, cullata dall'eterea colonna sonora firmata Emile Mosseri, giovane frontman della band indie rock The Dig

 

Questa colonna sonora contemplativa, che si articola tra assoli di piano, archi ed effetti elettronici, ci accompagna nel film, come se stessimo sfogliando un album fotografico o un diario segreto di un bambino dalle pagine ingiallite; a sottolinearne l'intensità sono anche due brani cantati da Yeri Han, co-protagonista di Minari.

 

[Emile Mosseri ft Yeri Han per la colonna sonora di Minari]

 

 

Lee Isaac Chung riprende il tema del ricordo, della memoria, del tempo che scorre particolarmente caro al Cinema orientale e lo contestualizza in un'estetica da dramma hollywoodiano indipendente.

 

Minari infatti ha avuto una distribuzione limitata da parte di A24, la più popolare casa di distribuzione e produzione indipendente statunitense, tra i produttori esecutivi, oltre all'attore coreano-americano Steven Yeun (Burning, The Walking Dead), troviamo anche Brad Pitt e ha ottenuto il suo primo importante riconoscimento al Sundance Film Festival, l'importante festival del Cinema indipendente principalmente targato USA presediato da Robert Redford

 

Tutte queste premesse confermano che non bisogna lasciarsi ingannare dall'aspetto dei protagonisti, perché Minari è un film intimamente statunitense, sia nella messinscena sia per le tematiche.

 

 

[Il giovanissimo e talentuoso Alan Kim è David]

 

 

La trama, brevemente: gli Yi sono una famiglia di immigrati sudcoreani, formata da Jacob, Monica (la già citata Yeri Han) e due bambini, il birichino David e la posata Anne.

 

Sono riusciti sempre a sostentarsi tramite il lavoro di sessaggio dei pulcini, ma Jacob vuole offrire alla sua famiglia qualcosa in più, qualcosa di cui essere fieri in futuro, qualcosa che abbia il loro nome e che possa svilupparsi, anche a costo di troppo sudore, fatica e sacrifici: vuole avviare un'azienda agricola di prodotti coreani e rivenderli nelle grandi città.

 

Per farlo decide di trasferirsi dalla California, all'Arkansas, nel cuore più brullo e selvaggio degli Stati Uniti.

 

 

[La famiglia Yi protagonista di Minari]

 

 

A mischiare ancor di più le carte in tavola saranno la già citata Soonja, madre di Monica, che si trasferirà per aiutarli e Paul, il personaggio interpretato da Will Patton, apparentemente un bifolco sopra le righe ma in realtà un portatore di una malinconica e delicata saggezza contadina. 

 

Sono gli anni '80, gli anni della reaganomics e della deregulation.

È la rivoluzione del libero mercato, privato di qualsiasi controllo governativo, spinta da una imponente riduzione della spesa pubblica e dell'imposta federale sul reddito.  

Chiunque può raggiungere qualunque vetta con furbizia e duro lavoro, in apparenza; d'altra parte questa utopia della meritocrazia perfetta è piena di spettri.

 

In questa gara al successo c'è chi parte avvantaggiato e chi invece, come Jacob, non ha margine di fallimento e deve lavorare il doppio per ogni incombenza e per ogni successo, con la certezza che tutto può essere ribaltato da un fortuito incidente.

 

 

[Scontro generazionale tra il piccolo David, nato negli Stati Uniti, e la nonna Soonja]

 

 

A differenza di quanto può sembrare dando un'occhiata alla sinossi prima di approcciarsi al film, Minari non è un film focalizzato sull'accettazione del diverso.

 

La famiglia Yi è ormai negli Stati Uniti da diversi anni, l'ignoranza dei provinciali dell'Arkansas è compensata da una buffa curiosità e dalla penna di Lee Isaac Chung, che è anche sceneggiatore del film, si evince che una società multiculturale è possibile anche negli anfratti degli Stati Uniti. 

 

 

[Monica e Jacob, a discapito delle difficoltà]

 

 

Minari invece è un film sul sogno americano e i suoi limiti, sulla miopia di un padre di famiglia negli anni '80 così spinto verso il futuro da dimenticare il presente, così spinto verso un fantomatico riscatto sociale da ignorare i disagi di chi gli sta intorno. 

 

Alla fine la soluzione, seppur sbrigativa e tutt'altro che originale, sembra essere nell'amore, nella semplicità del minari, nella resilienza dell'affetto familiare come fulcro di ogni cosa e seme della speranza. 

 

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