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The Father - Recensione: sentirsi come le foglie nel vento

Presentato al Sundance Film Festival nel 2020 e candidato a ben 6 Premi Oscar, è la trasposizione cinematografica dell’opera teatrale Il Padre 

Tra i molti film blasonati di quest’anno, che hanno goduto del plauso del pubblico e della critica e che, inevitabilmente, sono confluiti nella rosa dei candidati agli Oscar, The Father - Nulla è come sembra di Florian Zeller è probabilmente il titolo inizialmente passato più in sordina. 

 

Eppure potrebbe essere una vera sorpresa in un’annata cinematografica particolarmente ricca, nonostante le vicissitudini che il Cinema e il mondo intero si trovano ad affrontare ormai da più di un anno.

 

[Trailer ufficiale di The Father]

 

 

The Father, presentato al Sundance Film Festival nel 2020 e candidato a ben 6 Premi Oscar, è la trasposizione cinematografica dell’opera teatrale Il Padre (2012) scritta dallo stesso Zeller, pluripremiato drammaturgo francese qui al suo esordio nel mondo del Cinema. 

 

L’opera teatrale era già stata un successo, tanto che dopo il suo debutto a Parigi fu riadattata in lingua inglese dallo sceneggiatore Christopher Hampton (Le relazioni pericolose, Carrington, Espiazione) che, in seguito, ha aiutato Zeller anche nella sceneggiatura di The Father

 

 

[Una foto dalla rappresentazione teatrale di Le père di Florian Zeller al Théâtre Hébertot nel 2012-2013]

 

 

Il soggetto rimane pressoché invariato nella trasposizione: l’ottantenne Anthony (Anthony Hopkins), affetto da demenza senile, probabilmente dal morbo di Alzheimer, rifiuta tutte le assistenti che sua figlia Anne (Olivia Colman) gli propone, ostacolando il suo proposito di iniziare una nuova vita a Parigi.

 

Un’opera sulla malattia, dunque, ma non sulla sua rappresentazione.

 

Si pensi a un film come Still Alice (2014), dove viene mostrato passo dopo passo il progredire della patologia, dai primi sintomi fino alla sua esplosione, quasi a volerla analizzare.

In The Father non c’è nulla di tutto ciò.

 

Ambientato quasi interamente in un appartamento londinese, il film inizia con un tono thrilling che potrebbe portarci fuori strada.

Sembra succedano cose strane nell’appartamento: situazioni, personaggi, riferimenti spaziali e temporali che mutano in un batter d’occhio.

 

Lo stato confusionale di Anthony assume un accento ansiogeno, lo spettatore stesso è turbato dall’assurdità degli eventi e la colonna sonora di Ludovico Einaudi scandisce perfettamente ogni sussulto.

 

 

[Anthony e Anne nell'appartamento di The Father]

 

 

L’appartamento, così come ci ha insegnato Roman Polanski, può essere una riproduzione delle disfunzioni di chi lo abita e la metafora di quanto la mente si diverta a frammentare la realtà.

 

In The Father l’appartamento è un vero e proprio personaggio, una componente dinamica che appare sempre uguale a un occhio distratto ma che, al contrario, muta continuamente, assecondando la mente fluida di Anthony. 

Piccoli dettagli, come il colore di alcuni mobili, la cucina con uno stile ora più antico ora più moderno, la diversa disposizione di quadri e suppellettili, rendono impossibile stabilire se si tratti sempre dello stesso luogo.

 

A tal proposito, il montaggio di Yorgos Lamprinos in The Father ricopre un ruolo fondamentale.

 

Sono i cambiamenti quasi impercettebili che intercorrono tra una scena e l’altra a suggerire allo spettatore che tutto è in movimento e che una location così statica come un singolo appartamento possa invece trasformarsi in un luogo nuovo a ogni sguardo.

 

 

[L'appartamento di The Father, vero e proprio personaggio del film]

 

 

La mente di Anthony, insieme alla nostra, tende a confondere il suo appartamento con quello di Anne, e presto il disorientamento si diramerà su più livelli, funzionali a sviluppare quello che è il focus principale di The Father.

 

Zeller non vuole descrivere la malattia, né seguirne le tappe progressive, bensì vuole esprimerne le sensazioni. 

Il punto di forza di The Father è proprio quello di approcciarsi a una condizione straziante come quella della demenza senile utilizzando la prospettiva di una persona che ne è affetta e che, di conseguenza, non riesce a seguirne in maniera lucida lo sviluppo perché, banalmente, non è nemmeno cosciente del proprio stato.

 

Per tutta la durata di The Father osserviamo il susseguirsi degli eventi attraverso gli occhi di Anthony e, per questo, sperimentiamo il suo stesso dolore e frustrazione. 

Non c’è un prima né un dopo, le situazioni si ripetono in maniera uguale eppure diversa, come infinite combinazioni che non collimano mai del tutto. 

 

Insieme al protagonista ci aggrappiamo a dei punti fissi che possano fungere da bussola per orientarci nel labirinto della sua mente: sappiamo che Anthony non vuole una badante, che il suo orologio prima o poi sparirà, che Anne forse vuole trasferirsi a Parigi, che c’è il pollo per cena, che esiste un’altra figlia, Lucy, evidentemente più amata di Anne e che ogni volta che Anthony si affaccerà alla finestra vedrà sempre lo stesso angolo di strada.

 

Questi i motivi ricorrenti attorno cui ruota la sua vita ormai sconnessa, che servono da filo conduttore per districarci nel groviglio di emozioni, ricordi e percezioni del film.

 

 

[Anthony guarda dalla finestra per trovare un punto fermo nel caos che lo circonda]

 

 

L’intento di Zeller è esattamente quello di confondere lo spettatore, non per spiazzarlo con fantasmagorici colpi di scena, ma per coinvolgerlo in maniera attiva nell’esperienza e lo fa servendosi degli strumenti offerti dal mezzo cinematografico.

 

Come dichiarato dallo stesso regista, The Father è un puzzle a cui manca un pezzo. 

Per quante combinazioni si possano tentare, sarà impossibile giungere a una conclusione che sia razionale e univoca, proprio perché quel pezzo è stato omesso volontariamente.

 

Spesso, nell’arte, si tende a voler razionalizzare tutto. 

I cosidetti film "mindfuck" sono tanto amati proprio perché portano gli spettatori a scervellarsi su quale possa essere l’unica e definitiva soluzione di un intreccio – a volte ingiustificatamente – complicato.

 

Si tende a storcere il naso, però, quando si fa fatica a trovare una soluzione che sia esclusiva, dimenticando che è la realtà stessa, e di conseguenza l’arte, a eludere il concetto di univocità.

 

 

[Anthony Hopkins in una scena di The Father]

 

 

È giusto che l’arte venga analizzata e sviscerata, ma a volte sarebbe opportuno accantonare una logica di tipo matematico per lasciarsi trasportare dalle emozioni, abbandonarsi al flusso percettivo, accettando il volere dell’autore che, in The Father, è proprio quello di coinvolgere il fruitore a livello emotivo più che cerebrale.

 

Un metodo del tutto funzionale alla materia del film, forse l’unico in grado di farci provare in prima persona il disfacimento della mente di un essere umano ormai vicino alla morte. 

Viene quasi automatico pensare alla recente opera di Charlie KaufmanSto pensando di finirla qui (2020), che si avvaleva di espedienti simili per ritrarre le memorie alterate e la malinconia di un uomo ormai giunto al crepuscolo di una vita fatta di rimpianti.

 

Andando avanti, comunque, diventa possibile trovare una sorta di logica nell’illogicità: nel confondere i personaggi Anthony in realtà sembra seguire uno schema che lo aiuta ad accostare le persone in base ai sentimenti che prova per loro. 

 

Basti pensare all’intima connessione tra Laura (Imogen Poots), la nuova assistente, e Lucy, la figlia che intuiamo essere morta ma che continua a vivere, attraverso i suoi quadri, nella mente ormai sfilacciata di Anthony.

 

 

[In un momento di lucidità, Anthony cerca di affascinare la giovane Laura facendole credere di essere stato un ballerino di tip tap]

 

The Father non esplora soltanto la condizione del suo protagonista, ma anche quella dei personaggi che gli gravitano attorno, prima tra tutti Anne.

 

La figlia, interpretata da una sempre stupefacente Olivia Colman, è la vittima indiretta della malattia.

L’affetto che prova per il padre la porta a occuparsi di lui con dedizione, ma ciò vuol dire annullare la propria vita. 

Per lei ricominciare equivale ad abbandonare il padre malato, un padre che comunque non perde occasione per ricordarle quanto le preferisse l’altra sorella ma che, nei pochi momenti di lucidità, le grida quanto in realtà abbia bisogno di lei.

 

Attraverso gli occhi dilaniati di Colman, Zeller racconta anche il dramma dei cari che all’improvviso si vedono costretti guardare inermi le persone amate che si distaccano dal proprio corpo, per scomparire pian piano.

 

Forse è proprio questo l’effetto più tragico della malattia: Anthony è quasi a un altro stadio, ormai, ma Anne è totalmente cosciente e in grado di avvertire appieno il dolore e ogni sua ripercussione.

 

 

[Olivia Colman ci consegna una performance straordinaria in The Father]

 

 

Impossibile, infine, parlare di The Father senza menzionare una delle interpretazioni migliori degli ultimi anni, o potrei azzardare decenni. 

 

Trattandosi di una trasposizione di un’opera teatrale è sottinteso che le performance degli attori ricoprano una funzione più che mai fondamentale. 

 

Il lavoro fatto con il cast è complessivamente notevole e, tra gli altri, spicca una solare e dolcissima Imogen Poots, reduce da Vivarium (2020) e un'intensa Olivia Williams.

 

 

[Florian Zeller con il cast e la troupe di The Father sul set]

 

 

Olivia Colman ha quella rara capacità di far risplendere tutto ciò che tocca, sarebbe quasi superfluo ripetere quanto sia sempre in parte e quante emozioni riesca a trasmettere a prescindere dal minutaggio della sua performance.

 

Ma è di fronte a Sir Anthony Hopkins che ci inchiniamo.

 

Un’interpretazione, a detta dell’attore, risultatagli piuttosto facile, dato che condivideva con il personaggio alcuni tratti importanti, per primo l’età e tutta la malinconia che essa comporta. 

Malinconia relazionata al pensiero della dipartita, non più così lontana e ai ricordi di una vita intera che si fanno sempre più lontani e artefatti, come sogni che, per quanto ci sforziamo, non potremo mai riuscire a ricordare del tutto. 

Quello che rimane è soltanto un’astratta percezione di attimi di pura felicità.

 

È proprio a questa percezione che Hopkins si affida per lo straziante monologo finale, il ricordo di una ninna nanna cantata da sua madre che lo faccia tornare bambino; perché i bisogni dell’essere umano al principio e alla fine del proprio percorso sono esattamente gli stessi.

 

 

[Anthony cerca di afferrare i frammenti della propria vita mentre gli sfuggono tra le mani]

 

 

Anthony è un albero centenario che sta perdendo tutte le foglie e che non può opporsi alla forza del vento e della pioggia. 

 

Così, tassello dopo tassello, si spoglia di tutta la sua vita, persino della sua stessa identità, per tornare ad affidarsi a delle braccia che, semplicemente, lo cullino e lo rassicurino. 

Braccia a cui noi stessi vorremmo abbandonarci.

 

Ecco allora che The Father, immediatamente ascrivibile tra i più incisivi film sulla vecchiaia, ha raggiunto il suo obiettivo professato da Zeller: ci ha ricordato che facciamo tutti parte di qualcosa di più grande di noi e ci ha aiutato a riconnetterci con l’umanità.

 

Accogliendone tutto il dolore. 

 

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