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True Mothers - Recensione: due madri e due realtà - TIFF 2020

Al TIFF 2020 arriva True Mothers, film selezionato al Festival di Cannes 2020 e adattamento del romanzo di Mizuki Tsujimura per la regia di Naomi Kawase

Al Toronto International Film Festival 2020 viene presentato True Mothers, adattamento del romanzo di Mizuki Tsujimura per la regia di Naomi Kawase, selezionato anche al Festival di Cannes 2020 e arrivato in selezione a Toronto

 

Il film racconta la storia di una coppia che non può avere figli e di come grazie a un programma televisivo scoprono una clinica che ospita giovani donne che non possono tenere i nascituri dopo il parto, scegliendo di darli in adozione dopo essere state accudite in un ambiente protetto e amorevole. 

 

True Mothers entra però nella psicologia della madre adottiva Satoko (Hiromi Nagasaku) e della madre biologica Hikari (Aju Makita), raccontando al pubblico due storie intense, interconnesse da sentimenti complessi e protagoniste di due realtà opposte. 

 

Il cinema giapponese - e quello asiatico in generale - come detto in sede di recensione di Under the Open Sky, utilizza molto spesso una struttura narrativa dagli intenti piuttosto ampi.

 

True Mothers non è propriamente un dramma sull’adozione e per questo non dovreste aspettarvi di assistere ai molti cliché psicologici esplorati quando si parla del tema. 

 

In prima istanza grazie anche al “dove” della storia, ovvero il Giappone, che offre uno spazio del racconto a conferire nuova aria al contesto culturale. 

 

La storia di True Mothes cerca invece un passo differente e partendo dal dramma della coppia protagonista di non poter avere figli, si sposta poi sul punto di vista di Hikari, la madre biologica, rendendo centrale il suo percorso verso l’adozione e il contraccolpo psicologico che per via della famiglia e del contesto sociale si trova ad affrontare. 

 

 

 

 

Il Giappone descritto in questo film è rigoroso e impietoso, quasi quanto quello di Under the Open Sky, sottolineando ancora una volta come gli errori di percorso, come una imprevedibile gravidanza a quattordici anni, diventi un peccato capitale. 

 

Un suicidio sociale e uno stigma a segnare la donna fino a estreme conseguenze, spingendola giù per una spirale di ripercussioni psicologiche che la società giapponese sembra non trattare in nessun modo. 

 

Al tempo stesso True Mothers non vuole entrare troppo nel contesto sociale e la sua denuncia è più che altro sollevata dalla sensibilità dello spettatore rispetto a quanto accade a Hikari, in totale balia degli eventi. 

 

Lo sguardo di Naomi Kawase si concentra molto sulle sensazioni della protagonista, lasciando parlare poco il suo personaggio e molto la sua persona e le immagini, portandoci i suoi pensieri grazie alla messa in scena. 

 

La regista dimostra una elegante capacità nel mettere in scena il dramma e il suo occhio rispetto alla vicenda ha enorme sensibilità e forza, mettendo a schermo un film drammatico armonioso nella costruzione delle immagini e nel riuscire, impresa difficile, a portare il sesso tra due teenager con rara grazia ed efficacia. 

 

True Mothers trova quindi il suo grande pregio nella voce della regista e nella sua capacità di trasmettere il cuore della storia con forza, facendo in particolar modo di Aju Makita, interprete di Hikari, la star del film. 

 

Eppure True Mothers ha un grosso problema di fondo a vanificare, in parte, quanto di buono detto riguardo il film fino a questo momento. 

 

Per quanto elegante e aggraziata sia la voce di Naomi Kawase nell’adattare e mettere in scena la storia di Mizuki Tsujimura, il “come” scelto per dare ritmo e sostanza alla storia non è davvero convincente e non trova una voce efficace. 

 

 

 

 

True Mothers non è lineare nella sua struttura narrativa ma è monolitico nel suo sistema di flashback che vorrebbe dare un pizzico d’intrigo al motore della storia. 

 

Eppure la sceneggiatura, nella sua sostanza, non ne avrebbe avuto bisogno e il sistema scelto ad alternare la narrazione del presente a mastodontici flashback, è così evidente e così mal cadenzato da divenire pietra legata ai piedi di un plot buttato giù per un lago profondo. 

 

La sensazione è quella che True Mothers avrebbe giovato di un impianto narrativo più originale e meno didascalico nell’utilizzo dei flashback, facendo forse rimpiangere l’idea di un racconto “lineare” dal montaggio più serrato. 

 

Lo stesso Howard Hawks è sempre stato molto orgoglioso della sua battaglia contro i flashback e del suo non averne mai usato uno: 

“Cosa hanno di buono?

Se non sei bravo abbastanza da raccontare una storia senza i flashback, perché diavolo cerchi di raccontarli?

Sono sicuro esista qualche straordinario sceneggiatore in grado di trovare una maniera per raccontare una storia utilizzando i flashbacks, ma li odio.”

 

Non sono sempre d’accordo con Howard Hawks, anche se spesso l’uso dei flashback è un conveniente sistema per togliersi d’impiccio una brutta situazione di sceneggiatura, ma come dice nella citazione trovo sia meglio trovare un sistema per raccontare la propria storia senza, che utilizzarli per inserirli malamente nel proprio film. 

 

Naomi Kawase cade un po' in questo tranello e così facendo spreca le sue doti e il suo occhio: nelle due ore e venti minuti di film perde l'occasione di uccidere alcune scene che portano lo spettatore fuori dal cuore del film, insistendo su dettagli, situazioni e quadrature poco interessanti.

 

La poca convinzione nella gestione dei flashback sembra enfatizzata in tutti quei momenti in cui le scene di raccordo strizzano l’occhio a Terrence Malick, focalizzandosi sul mare, sui ciliegi in fiore e dando spazio a silenzi, suoni e sguardi che nel giusto flow narrativo possono si connettersi con l’idea della vita e della ciclicità di certe situazioni, ma che in questo caso sembrano quasi un esercizio di stile di una voce insicura nel trasmettere il messaggio centrale del film. 

 

True Mothers è un buon film, sorretto da una storia accorata e di grande impatto e che viene recitata e messa in scena con molta grazia, ma che si perde nell’insicurezza di un “come” narrativo che in certi frangenti diventa anche snervante per lo spettatore.

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