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Peaky Blinders: enfatizzare Il Padrino per una nuova mitologia

Una riflessione sulla mitologia e sulle peculiarità di Peaky Blinders, serie culto creata da Steven Knight nel 2013 per BBC

Amata per la sua ostentazione stilistica e per la sua spettacolarità coatta e venerata per la sua capacità di dare a qualsiasi personaggio lo statuto di icona Peaky Blinders è una serie che sembra possedere tutto.

 

Compreso ciò che meno spontaneamente può essere avvicinato alla sua ortodossia linguistica: il gusto per la finezza.

 

Per un’opera che non si nega mai il piacere del dialogo ad effetto e che si concede così volentieri all’enfasi visiva, dovrebbero forse mancare le occasioni per un lavoro di ritrazione sul racconto e sull’immagine capace di agire a più gradi di senso.

 

Insomma, tra sparatorie al ralenti, vendette consumate nel sangue e camminate cool tra la polvere e le fiamme di Birmingham, sembra difficile che il gioco costruttivo di Peaky Blinders possa contemplare qualcosa di diverso dalla sottolineatura.

 

Invece lo show creato da Steven Knight nel 2013, e tutt’ora in corso con la sesta stagione in produzione, è fra gli esempi più sensazionali di come all’interno della stessa formula audiovisiva possano convivere operazione e gesto, eccesso e sfumatura, esasperazione e grazia.

 

[Trailer della stagione 1 di Peaky Blinders]

 

 

Un risultato espressivo che nelle narrazioni cinematografiche della contemporaneità riesce molto bene per esempio a Xavier Dolan, uno che riesce a costruire l'emozione e la complessità semiotica attraverso la merce culturale meno nobile possibile (brani come On ne change pas oppure Dragostea din tei sono di fatto alla base dei momenti migliori di Mommy ed È solo la fine del mondo).

 

Spostandoci dall’arthouse al mainstream, e quindi rimanendo più vicini alla matrice stilistica di Peaky Blinders, un regista che oggi tenta in ogni modo di avvicinarsi a quell’idea di vigore pop è probabilmente Zack Snyder, al quale di certo non manca l’attenzione per iconografia ed epica.

 

A mancargli è un po’ tutto il resto, ma questo è un altro discorso. 

 

La serie di Steven Knight, invece, dopo cinque stagioni è ancora ammirevole per il modo in cui riesce ad essere sofisticata e compatta nonostante sembri sempre sul punto di lasciarsi andare all’etica del kitsch o al piacere per la coreografia della violenza e dell'azione.

 

 

[I fratelli Shelby di Peaky Blinders: da sinistra Arthur, John e Thomas]

 

 

Siamo nel 1919 a Small Heath: i Peaky Blinders - così chiamati per via delle lame che nascondono nella visiera dei berretti - sono una fra le bande che gravitano nell'ambiente malavitoso di Birmingham e fanno riferimento alla famiglia Shelby.

 

Thomas, il secondogenito del capostipite fuggito, prende il comando dell'organizzazione in accordo col fratello maggiore Arthur, troppo ingenuo e irascibile per potersi assumere la responsabilità della leadership.

 

Pluridecorato reduce della Prima Guerra Mondiale, Thomas dovrà non solo convivere con il ricordo dell'esperienza di trincea e gestire i livori interni ad una famiglia in eterno conflitto, ma garantirle basi solide per la grande ascesa ai piani alti della criminalità organizzata inglese.

 

Dalle scommesse sulle corse dei cavalli al commercio di alcol, dall'imprevedibile gioco di alleanze/tradimenti tra bande rivali alle rappresaglie dei nemici tornati per riparare a torti passati, dal rapporto col proletariato locale all'ingresso in Parlamento.

 

I Peaky Blinders costruiscono il proprio mito nel cuore del Novecento e sfruttano il periodo di transizione tra le due guerre per dare una forma compiuta alla propria epopea criminale.

 

 

[Le prime stagioni di Peaky Blinders vedono gli Shelby affrontare le altre famiglie criminali di Birmingham]

 

 

L'arsenale narrativo della serie, così come le sue soluzioni incipitarie o le personalità dei protagonisti, vengono da un unico immenso prototipo e cioè Il Padrino.

 

Tutto ciò che il gangster movie è diventato oggi nella sua formulazione cinematografica e televisiva deve necessariamente fare i conti con un immaginario colonizzato e con un sistema di segni difficile da ri-connotare.

 

Che la rappresentazione sia più interessata alle contraddizioni dell'epica dell'ascesa come nel caso di Coppola, e in un certo senso del De Palma di Scarface, oppure che sia più affascinata dal soggettivismo e dunque da un'indagine antropologica sul contesto mafioso nel quale agisce il piccolo delinquente (l'idea di Martin Scorsese), l'universo del crimine esiste sulla base di modelli troppo grandi per poterne fare a meno.

 

Dopo I Soprano, e quindi dopo la prima grande rielaborazione del gangster movie passata dalla TV e diventata a sua volta mitologia di massa, adesso l'industria culturale delle immagini sembra nutrirsi soprattutto di due cose: la nostalgia per la pop culture del passato e la fascinazione per le storie di criminalità.

 

A questo proposito, solo qui in Italia abbiamo avuto Gomorra, Romanzo Criminale e Suburra, mentre a partire dal successo di Narcos i nordamericani stanno elaborando il tema del narcotraffico e la scoperta del Messico come nuovo territorio del male e del peccato, basti pensare ai numerosi film su Escobar, al franchise di Sicario o alla onnicomprensiva ZeroZeroZero, co-prodotta assieme a Francia e Italia.

 

 

[Al Pacino nei panni di Michael Corleone, personaggio a cui deve molto il Thomas Shelby di Peaky Blinders: in generale la serie di Steven Knight rielabora ed enfatizza il modello offerto da Il Padrino]

 

 

In sostanza il crimine interessa, a prescindere dal paese di provenienza e dal paradigma narrativo che decide di seguire, ma se una serie come Peaky Blinders mantiene lo stesso seguito a distanza di anni non può essere soltanto per via di un genere che oggi intercetta meglio di altri la curiosità del pubblico.

 

E, a guardar bene, nemmeno per la conclamata riverenza che mostra nei confronti della drammaturgia di un classico come Il Padrino.

 

Certo Thomas Shelby è un Michael Corleone traslitterato, preso dalla New York del secondo dopoguerra e riassegnato all'Inghilterra degli anni '20 con la stessa storia di background e la stessa predestinazione al comando.

 

I due sono infatti reduci ed eroi di guerra, scalano le gerarchie interne alla famiglia per guidarle dall'alto, si affidano a figure parentali di supporto per le decisioni più sofferte (per Michael era il padre, per Thomas è la zia Polly) e hanno infine sostituito la propria autorità a quella dei rispettivi fratelli maggiori, entrambi troppo irruenti per poter essere i leader giusti nel momento del pericolo.

 

E l'elenco delle analogie potrebbe proseguire ancora a lungo se pensiamo per esempio alla sorella Ada, che condivide con Connie Corleone il vizio di innamorarsi sempre degli uomini sbagliati (oppure non approvati dalla famiglia) e la condanna a dover assistere agli avvenimenti sempre da un angolo nascosto dietro la macchina da presa, eccezion fatta per il ruolo svolto da Ada nella prima stagione.

 

Eppure Peaky Blinders è un'operazione disancorata rispetto al proprio modello e, ancor più importante, ben lontana dall'intenzione di surrogare un testo irraggiungibile per chiunque, persino per la penna raffinatissima di Steven Knight.

 

 

[Thomas, interpretato da Cillian Murphy, è il protagonista delle serie e il personaggio a cui spetta il compito di essere leader dei Peaky Blinders]

 

 

Per questo il primo passo è quello nella direzione del compromesso, della mediazione tra il desiderio di profondità nella scrittura e nell'intreccio e il bisogno di appagamento immediato (quella che Umberto Eco chiamerebbe “consolazione”) da parte dell'audience.

 

Così se la crime story è da sola un oggetto culturale vittima della mercificazione moderna, e quindi capace di garantire alla serie un sorta di attestato di riconoscibilità che sposti sul terreno di gioco le premesse con le relative promesse, allora Peaky Blinders deve accettare il confronto con l'eccesso e deve abbracciare un'idea di messa in scena che non escluda mai il faccia a faccia con l’iperbole.

 

E in una situazione simile, in cui sovraccaricare il racconto corrisponde alla via più semplice per arrivare direttamente allo stomaco dello spettatore senza passare per il cervello, il merito di Knight è quello di non limitarsi a rappresentare i problemi connessi alla criminalità, ma a significarli attraverso l'esagerazione.

 

 

[I Peaky Blinders in azione tra i quartieri e le case popolari di Birmingham: una delle soluzioni visive più ricorrenti della serie]

 

 

In questo senso il personaggio di Polly Gray diventa un caso limite.

 

Nella prima stagione di Peaky Blinders ogni momento che la riguarda non genera mai percezione, quanto piuttosto consapevolezza: donna invulnerabile alla mascolinità violenta che la circonda, figura misteriosa che sembra lasciar trapelare tutto di sé senza che poi si sappia davvero qualcosa sul suo conto, Polly è uno di quei corpi profondamente cinematografici, di quelli che suscitano allo stesso tempo eccitazione e paura, di quelli a cui basta accendere una sigaretta o bere un bicchiere di scotch per essere sensuali e a cui basta uno sguardo di rimprovero per mostrarsi inaccessibile. 

 

Quando poi la seconda stagione impone a Polly lacerazioni e fragilità inevitabili, legate soprattutto al desiderio di ricongiungersi col figlio Michael e alle umiliazioni subite dal viscido Campbell, ecco che la struttura tensiva costruita attorno a lei e covata per tutta la prima parte esige uno scioglimento fragoroso. 

 

Solo allora, dopo essere stata abusata e ingannata, Polly Gray merita un riscatto umano che per consumarsi non ha bisogno di sottigliezze, ma solo di puro e rumoroso esibizionismo.

 

La donna spara a Campbell nel fatidico giorno del derby a Epsom e, prima di uscire in slow motion con riverbero di chitarra elettrica dalla cabina telefonica in cui lo ha ucciso, sentenzia:

“Non si fotte coi Peaky Blinders”.

 

Impressionante come la chiusa di un villain a modo suo storico e la riabilitazione di uno dei personaggi più amati convergano in un epilogo così fuori luogo, così dannatamente tamarro, eppure così dannatamente giusto.

 

Lo stesso schema si ripete in continuazione anche per Arthur, il fratello indomabile e furioso di Thomas, quando per esempio incontra per la prima volta il padre dopo anni.

 

Pur essendo il tipico cane sciolto che ogni organizzazione criminale manda in casa dei nemici per giustiziarli o intimidirli, il protagonista indiscusso delle sequenze di combattimento più adrenaliniche, all'incontro col padre perduto si commuove come un fanciullo, in modo così ingenuo e sincero che questi lo riesce a circuire solo per farsi dare del denaro contante e fuggire di nuovo.

 

Il suo orgoglio sfregiato e la sua fiducia tradita emergono così attraverso l'unica emozione che il suo spirito sembra in grado di coltivare, ovvero la rabbia: spettacolare quando esplode negli scontri e nel fracasso della lotta, struggente quando si rende conto di non avere nient'altro da offrire al mondo.

 

 

[Polly Gray, interpretata da Helen McCrory, è la zia di Thomas e forse il personaggio più amato di tutta Peaky Blinders]

 

 

Infine, nonostante la scrittura rinnovi ogni volta le occasioni di contrasto e offra a ciascun personaggio la possibilità di mettere sempre in discussione la propria coscienza e il proprio scopo all'interno della storia, è a Thomas Shelby che Knight riserva il privilegio di essere esplorato fino in fondo.

 

Il capo dei Peaky Blinders funziona come un meccanismo a produttività infinita di rancori e nevrosi, di ambizioni e dolori; è un vero fabbricante di significati, colui che convoca a sé tutte le trame per imprimere loro il proprio carisma e la propria azione demiurgica.

 

Il dramma della guerra di trincea, che infetta ancora i suoi ricordi e ritorna in vita tramite il sogno, è la più straziante tra le ferite di Thomas, quella di cui avvertiamo la maggiore urgenza e di cui presagiamo l'impossibilità di essere curata per davvero. 

 

E nonostante la serie non rinneghi mai la sua natura di crowd pleaser, con tutte le ingenuità e le esuberanze legate comunque a un contesto di spiccato machismo, persino la storia d'amore ha una forza tale da fondare a sua volta un'epica a parte.

 

Indimenticabile e travolgente, troppo vera per credere che nell'universo di Peaky Blinders possa esistere un'altra grande coppia se non la loro, l'avventura amorosa di Thomas e Grace non è soltanto il primo vero attimo di tregua nell'inferno corrotto del crimine, ma è soprattutto l'unica via d'uscita che i due possiedono per lasciarsi alle spalle i traumi del passato.

 

A interpretarli Annabelle Wallis è semplicemente lucente e Cillian Murphy, attore sul quale il Cinema non ha ancora insistito abbastanza, è addirittura formidabile per la sua capacità di lavorare così in sottrazione mantenendo pur sempre in evidenza la solennità del suo personaggio.

 

La recitazione tutta dentro, il dolore mai a favore di macchina, lo studio accuratissimo sulla voce e sull'accento, sulla camminata, sul modo di portarsi la sigaretta alla bocca: più che un atto interpretativo, la prova di Murphy è una questione di dissimulazione, perché non si diverte tanto a giocare coi concetti di identificazione e repulsione, quanto piuttosto a farci rincorrere Thomas per squadernarlo, per capire le ragioni della sua solitudine e i segreti della sua eccezionalità.

 

 

[Thomas e Grace in una scena di ballo: grazie a una scrittura sofisticata e ad un'alchimia perfetta tra i due attori, la loro è la storia d'amore migliore dell'intera serie]

 

 

Niente affatto semplice trovare una serie tanto longeva che abbia una simile brillantezza di scrittura e che allo stesso tempo si serva della sua veste grafica, del suo appeal da prodotto massificato solo come scorciatoia per catturare l'entusiasmo del pubblico e convertirlo in motivo di riflessione.

 

Ancor meno semplice se pensiamo che Peaky Blinders, grazie soprattutto all'ultima stagione, sta misurando la propria ambizione nel confronto diretto col secolo che la ospita: dopo tre stagioni quasi ombelicali, dove la dimensione novecentesca era circoscritta al ricordo della Grande Guerra e alla crisi dei salariati, e dopo una quarta stagione di palese transizione, la quinta perde il fascino dell’intrattenimento e guadagna in termini di ambizione ed espansione della propria sostanza narrativa.

 

Il fascismo, lentamente, sta facendo breccia in Europa e la famiglia Shelby, abbandonate le ormai inutili querelle con le famiglie di italiani, zingari e russi, potrebbe trovarsi ad affrontare una fra le minacce più inquietanti che abbiano mai segnato il Novecento.

 

 

[Sam Claflin, nell'ultima stagione andata in onda, interpreta il villain Oswald Mosley, personaggio realmente esistito che nel 1932 fonderà l'Unione Britannica dei Fascisti]

 

 

Allora operazione e gesto, dicevo all'inizio.

 

Eccesso e sfumatura.

Esasperazione e grazia.

 

Tutto nel segno di un'energia dirompente, di una sintonia imprevedibile tra spirito e linguaggio, di una paziente e laboriosa ricerca sul racconto che lo porti a diventare mitologia, di un fragore emotivo che scuota chi, a differenza di Thomas, non ha ancora il cuore spezzato.

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