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Il grande silenzio - Recensione: l'anti-western di Sergio Corbucci

Analisi de Il grande silenzio, film del 1968 diretto da Sergio Corbucci con protagonista Jean-Louis Trintignant 

Il grande silenzio esordiva con una première a Roma il 22 novembre 1968.

 

Sergio Corbucci è un regista di cui si parla sempre troppo poco, un autore che ha rivoluzionato un genere cardine per la Storia del Cinema: il western.

 

Nel 1964 Sergio Leone con il leggendario Per un pugno di dollari riscrisse le regole del western classico hollywoodian dando vita allo Spaghetti Western, filone cinematografico aureo caratterizzato da una forte violenza visiva, in cui eroi e cattivi si fondevano per dar vita a personaggi indimenticabili. 

Nel 1966 Corbucci, complice il successo di questo sottogenere tutto italiano, diresse il suo primo western: Django.

 

Il film vedeva come protagonista l'allora sconosciuto Franco Nero e portava a livelli mai visti fino a quel momento la violenza e il pessimismo - non a caso l'aiuto regista di Corbucci era Ruggero Deodato, che qualche anno dopo diresse Cannibal Holocaust - due aspetti che contribuirono a lanciare il cineasta romano fra i grandi dell'epoca.

 

 

[Django nell'iconica sequenza iniziale del film, omaggiata da Quentin Tarantino in Django Unchained]

 

 

Il successo del suo primo western aiutò Corbucci a realizzare quello che sarebbe diventato il suo film icona: Il grande silenzio

 

Siamo nello Utah del 1898, l'epoca della conquista del selvaggio West si sta avviando verso il tramonto e il governatore dello "Stato Alveare" vuole porre fine al sistema di legge barbarico che da anni permette ai cacciatori di taglie di mietere vittime in modo legale. 

Per farlo invia lo sceriffo Gedeon Corbett (Frank Wolff) a Snow Hill, una cittadina che è teatro di una caccia al topo fra i banditi nascosti tra le montagne innevate e gli spietati bounty killer

 

Nel frattempo, un misterioso pistolero chiamato Silenzio (Jean-Louis Trintignant) viene assoldato dalla vedova Pauline per uccidere lo spietato cacciatore di taglie Tigrero (Klaus Kinski); quest'ultimo è reo di aver ammazzato il marito della donna per riscuotere una taglia messa ingiustamente da Pollycut, un banchiere che negli anni ha costruito un business apparentemente legale in collaborazione con i bounty killer.  

 

Ed è solo l'inizio. 

 

[Il trailer de Il grande silenzio]

 

 

Fin dalle prime immagini accompagnate dalla splendida colonna sonora di Ennio Morricone il regista ci catapulta in un paesaggio inedito per un western: montagne innevate e laghi ghiacciati. 

 

Il grande silenzio è stato girato quasi completamente sulle nostre Dolomiti - a parte gli interni in studio e i flashback sul Lago di Bracciano - e questa cornice magnifica permette allo spettatore di immedesimarsi nell'angoscia claustrofobica che i banditi provano nell'essere braccati costantemente dai cacciatori di taglie: nel film del regista romano non c'è spazio per le lunghe cavalcate in mezzo alla prateria, c'è solo il freddo della neve e la fatica nel muoversi in un ambiente così ostico circondato dalle montagne.

 

Questo aspetto contribuisce a creare l'atmosfera crepuscolare ideale per mostrare lo scontro fra Silenzio e Tigrero. 

 

 

[Jean-Louis Trintignant ne Il grande silenzio: "Si chiama Silenzio, perché dopo che è passato resta soltanto il silenzio e la morte!"]

 

I due personaggi principali de Il grande silenzio sono apparentemente i due poli che rappresentano il Bene e il Male in senso assoluto.

 

"Apparentemente" perché se il primo sembra agire sempre per motivi genuinamente positivi, con il passare del tempo ci si rende conto che è anche lui vittima di quel sistema di leggi malato e "sbrigativo" che caratterizzava il selvaggio West. 

Silenzio, interpretato da un sontuoso Trintignant, non spara mai per primo per far sì che ogni volta la legge identifichi i suoi omicidi come "legittima difesa" ma, nella realtà dei fatti, non si tira mai indietro nell'ammazzare qualcuno anche solo per una semplice discussione. 

 

Al contrario Tigrero, un Klaus Kinski più freddo e cinico che mai, uccide quasi sempre entro i limiti della legge e per questo possiamo quasi comprendere il suo punto di vista rispetto l'assassinio. 

 

"Deve cercare di capire signora... è il nostro pane." 

 

 

[Tigrero ne Il grande silenzio: un personaggio violento e senza scrupoli interpretato magistralmente da un immenso Klaus Kinski]

 

 

La mancanza di un vero e proprio eroe, aspetto caratteristico dello Spaghetti Western, ne Il grande silenzio viene trasposta in un ambiente drammatico dove i personaggi sono tristemente umani e l'epica classica del genere è succube di un nichilismo profondo. 

 

La ferocia non è mai esasperata, ma serpeggia costantemente nei personaggi - tipicamente "corbucciani" - per poi esplodere in scene veramente dolorose dal punto di vista emotivo e visivo: emblematico in tal senso il finale del film, dove il tanto atteso scontro fra i due protagonisti si risolverà in una scena tanto umana quanto drammatica.

Il grande silenzio è rivoluzionario da questo punto di vista perché non mostra la classica fine che ci si può aspettare in un western, ma anzi capovolge le aspettative dello spettatore lasciandolo semplicemente di stucco. 

 

Un finale per il quale Sergio Corbucci ha dovuto lottare duramente: i produttori del film non erano particolarmente convinti rispetto alla conclusione pensata dal regista romano. 

 

 

[The Hateful Eight, di Quentin Tarantino: un film che forse non sarebbe mai esistito senza Il grande silenzio] 

 

 

Paesaggi innevati, cacciatori di taglie senza scrupoli, finali atipici, dialoghi dove l'utilizzo della parola è più pericoloso di quello della pistola - un dialogo fra Tigrero e lo sceriffo nella carrozza è estremamente simile a quello fra John Ruth e il maggiore Warren di The Hateful Eight - fanno capire come autori del calibro di Quentin Tarantino siano ampiamente debitori del Cinema di Sergio Corbucci.

 

Il grande silenzio si colloca perfettamente nel panorama degli spaghetti western leoniani con modalità meno epiche, meno appariscenti, ma decisamente più umane, reali e feroci.

 

Per questo è bene parlarne sempre, ricordarlo, per non dimenticare mai Sergio Corbucci, un regista capace di contribuire alla grandezza del "genere" negli anni d'oro del Cinema italiano. 

 

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