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I Miserabili - Recensione: le colpe dei padri

Recensione de I Miserabili, primo lungometraggio del francese Ladj Ly, vincitore del Premio della Giuria a Cannes 2019 e candidato come Miglior Film Internazionale agli Oscar

Ci sono film che già dai titoli di testa fanno presagire che nelle successive due ore tutto andrà per il verso giusto: in questo senso, I Miserabili non fa assolutamente eccezione.

 

 

Sullo schermo scorrono i frame iniziali del film diretto dal regista francese Ladj Ly e, una dopo l'altra, si alternano certezze produttive del calibro di Canal+ (The Mandalorian, Shameless, The New Pope) e Cine+ (Dunkirk, La vita di Adele, The Lobster) e Wild Bunch (LoveThe Neon DemonBabadook).

 

Segue la firma di Andrea Occhipinti che, obiettivamente, rappresenta da sempre una garanzia per chiunque ami il buon Cinema: basti pensare che solo nell'ultimo periodo, tra i film prodotti e/o distribuiti dalla sua Lucky Red, troviamo Ritratto della giovane in fiamme18 regaliSorry We Missed You Un giorno di pioggia a New York.

 

Mica pizza e Michael Bay.

 

 

[I company credits de I Miserabili: niente male, vero?] 

 

 

A chiudere in bellezza le ottime premesse del film c'è la "palmetta" di Cannes che, nel caso qualcuno se lo fosse dimenticato, ci ricorda come I Miserabili - insieme a Bacurau - si sia aggiudicato il Premio della Giuria alla 72ª edizione del Festival francese

 

I Miserabili si apre con il "Il Calcio che guida il popolo", una sorta di rivisitazione del dipinto immortale di Eugène Delacroix dove, però, a unire il meltin' pot francese non c'è la Libertà, bensì la Nazionale dei Bleus condotta dal suo talento/simbolo multietnico Kylian Mbappé.

 

I bistrot si riempiono e i tricolori si uniscono alle bandiere algerine nella lotta contro il nemico comune: la Croazia battuta ai Mondiali del 2018.

 

 

 

 

Ma questo è solo l'antefatto illusorio di una realtà aggregativa fittizia: il mondo concreto delle Banlieue non è per nulla costruito su eguaglianza e fratellanza come vorrebbe invece il celebre motto di una Rivoluzione bagnata dal sangue dei tiranni (e non quello di 22 multimilionari che rincorrono un pallone).

 

Come era già accaduto nello straordinario L'Odio di Mathieu Kassovitz (1995), il contesto dei sobborghi parigini è infatti assimilabile a quello di una "terra di nessuno" disseminata di mine sociali pronte a deflagrare con violenza, sventrando e spazzando via viscere e arti.

 

Brandelli dei miserabili: uomini, donne e bambini... neri, bianchi, mulatti, francesi o africani. 


Poco importa: nessuno se ne curerà.

 

 

[Damien Bonnard è il poliziotto Stéphane ne I Miserabili]

 

 

In questo contesto da guerriglia urbana si muovono Chris (Alexis Manenti) e Gwada (Djibril Zonga), membri della BAD, un'unità speciale delle forze di polizia dedita alla lotta dei crimini di strada.

 

Alla squadra si aggiunge il novellino Stéphane (Damien Bonnard), un poliziotto che crede davvero nel concetto di "giusto o sbagliato", al contrario dei due colleghi che amministrano (forse sarebbe meglio dire "dispensano") la giustizia col tacco dello stivale e la punta del manganello, finendo addirittura con l'essere collusi con le bande criminali che dovrebbero combattere.

 

La storia si attiva nel momento in cui un cucciolo di leone, appartenente a un gruppo di poco raccomandabili gitani del circo, viene rapito.

 

I membri della BAD si troveranno nella scomoda posizione di dover porre rimedio alla faccenda, pena l'esplosione di un conflitto che porterà in dote sangue e vittime.

 

[Il trailer ufficiale de I Miserabili]

 

 

I primi due giorni di servizio di Stéphane si animano quindi con i i soprusi subiti dai cittadini e la violenza somministrata dalle forze dell'ordine: per l'ennesima volta il concetto di "comunità" si dimostra una bellissima favola a dir poco utopistica.


La legge della giungla urbana, dove il più forte divora il più debole, è l'unico meccanismo funzionante di Montfermeil.

 

"It is what it is": il ragionamento sociale portato sullo schermo da Ladj Ly ha una valenza (e potenza) narrativa disarmante.

 

Il regista - classe '78, originario del Mali - conosce bene le realtà dei sobborghi, le ha respirate e vissute in gioventù essendo nato proprio nel setting rappresentato ne I Miserabili di Victor Hugo e nel suo omonimo lungometraggio d'esordio.

 

Dal punto di vista tecnico-visivo, la formazione documentaristica dell'autore è evidente, viste le modalità da "Cinema verità" con cui la macchina da presa si muove negli spazi, indagando le miserie di coloro che vi albergano.

Terminata la visione del film, nella testa dello spettatore resta incastrata la chiara idea di come Ly sia dotato di una "grammatica cinematografica" ben delineata e assolutamente funzionale al suo racconto: i cambi di fuoco studiati ed efficaci, il frequente utilizzo (piaccia o meno) dello zoom, e i piani sequenza - non gigioneggianti ma "tenuti" fino al momento giusto - si alternano con eleganza, trasmettendoci l'immagine di un regista che sa perfettamente ciò che vuole e dotato di un immaginario rappresentativo ben definito.

 

 

 

Lo script - steso a sei mani dallo stesso Ly con Giordano Genderlini e Alexis Manenti - è stato raccontato dai critici della Croisette di Cannes come un incrocio fra il già citato L'Odio di Kassovitz e Training Day (2001) di Antoine Fuqua.


Volendo, ai riferimenti cinematografici menzionati si potrebbe aggiungere anche Colors - Colori di guerra (1988), quarto lungometraggio da regista di Dennis Hopper con protagonisti Sean Penn e Robert Duvall.

 

Ma se le matrici dei lavori di Fuqua e Hopper erano fortemente indirizzate verso un Cinema narrativo, dotato sì di messaggi di denuncia sociale ma comuque votato alla resa (anche al botteghino) del soggetto cinematografico, tutto questo ne I Miserabili non avviene.

 

Il messaggio incandescente e abrasivo del drama-thriller sociale di Ladj Ly è sentito e apparentemente avulso da dinamiche commerciali: la componente narrativa c'è (e ha anche i ritmi giusti), ma è quasi sempre funzionale al ragionamento - non troppo sommerso - del regista. 

 

 

 

 

Come avvenuto similarmente in Cafarnao (2018) di Nadine Labaki o - per restare nello stesso genere cinematografico - ne Il Profeta (2009) di Jacques Audiard, la macchina "a mano" e la fotografia di Julien Poupard trasportano lo spettatore, quasi fisicamente, all'interno delle squassate stamberghe dove vivono i miserabili protagonisti del film.

 

Attraverso le immagini montate in maniera organica da Flora Volpèliere e le scenografie di Karim Lagati si percepisce quasi il sozzume dei caseggiati e il tanfo dei poveracci che li abitano.

Per fortuna, nel racconto del regista francese c'è spazio anche per prospettive inconsuete e positive: l'Islam mostrato ne I Miserabili, finalmente, non è quello delle bombe e dei martiri fondamentalisti, bensì un "credo" che si esprime attraverso i valori di solidarietà, amore e fratellanza.

 

 

 

 

Ne I Miserabili di Ly non troverete il rigore morale di Javert, la dolcezza di Cosette o il riscatto di Jean Valjean, elementi propri del romanzo di Victor Hugo - che viene addirittura canzonato dai protagonisti della pellicola - ma solo le vittime di un sistema sociale completamente indifferente rispetto la sorte dei propri figli e figlie.


Una nazione dove i miserabili non sono banditi di strada o poliziotti violenti, ma le future generazioni di bambini costretti a trasformarsi in enfants terribles pronti per la rivolta e l'omicidio.

E il frenetico finale del film, velenoso e bellissimo, ne è la perfetta rappresentazione.

 

 

["Amici miei, ricordate bene questo, non ci sono cattive erbe né cattivi uomini. Ci sono solo cattivi coltivatori"]

 

 

I Miserabili - candidato come Miglior Film Internazionale alla 92ª edizione degli Oscar e vincitore di ben 4 Premi César tra cui Miglior Film e Miglior Montaggio - verrà distribuito nelle sale italiane questa primavera. 

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