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L'uomo del labirinto - Recensione: Donato Carrisi stecca la seconda

L'uomo del labirinto, seconda fatica cinematografica di Donato Carrisi, è un film incerto sul tono da assumere e che lascia un grande rimpianto viste le potenzialità dello scrittore/regista italiano

Durante la presentazione in sala all'anteprima milanese de L'uomo del labirinto, il regista Donato Carrisi si è detto estremamente felice e soddisfatto di aver potuto tentare "la follia di girare un thriller in Italia".

 

A posteriori si può dire che la follia, in realtà, sia stata ben altra.

Sono passati poco meno di due anni da quando Carrisi stringeva fra le mani il David di Donatello al Miglior Regista esordiente (consegnato da un certo Steven Spielberg) per il suo sorprendente e ben confezionato La ragazza nella nebbia: un thriller cupo, citazionista e visivamente molto debitore al Cinema hollywoodiano.

 

 

[Donato Carrisi riceve il David di Donatello da Steven Spielberg durante la cerimonia del 2018]

 

Due anni non sono molti, eppure la sua seconda opera da regista, L'uomo del labirinto, sembra solo un'eco sbiadita di tutte le pregevolezze acclamate all'epoca da buona parte di critica e pubblico.

 

In una città di fantasia - costruita su una miscellanea di grattacieli, luci da metropoli asiatica e periferie paludose popolate da loschi figuri e freaks inquietanti - si muove Toni Servillo nei panni di Bruno Genko, detective privato/cacciatore di debitori.

 

Dopo essere stato ingaggiato quindici anni prima dai genitori di una ragazzina scomparsa, il Private Eye verrà a conoscenza della liberazione della giovane, sequestrata da Bunny, rapitore che veste una maschera da coniglio ornata con fiammeggianti occhi rossi a forma di cuore.

 

Rinchiusa in una prigione sotterranea chiamata "il labirinto" è stata sottoposta per tre lustri a una serie di prove (da banali rompicapo a cimenti ben più violenti) che avevano come premio la sopravvivenza.

 

 

[Bunny, il mostro de L'uomo del labirinto]



L'eroe della storia, puzzolente e tabagista incallito, è la (im)perfetta rappresentazione dell'investigatore privato noir: perenne sigaretta in bocca e registratore alla mano per suggerire a se stesso - e allo spettatore - i propri pensieri.


L'uomo ha poco tempo per risolvere il caso: il suo cuore fuori fase, dicono i medici, sta per regalargli una morte rapida, improvvisa e molto vicina.

Dall'altra parte c'è Samantha (Valentine Bellè) , l'ex ragazzina scomparsa ormai donna che, in ospedale, viene interrogata da un profilerDustin Hoffman, il quale la aiuta a scavare nella propria memoria per trovare elementi utili ad assicurare l'uomo del labirinto alla giustizia.

La prova di recitazione della star americana, così come era stata quella - a dir poco speculare - regalata da Jean Reno nel primo lavoro di Carrisi, è tutto sommato ordinata e funzionale alla caratterizzazione del personaggio.

 

[Dustin Hoffman è il Dott. Green ne L'uomo del labirinto]

 

 

Dopo le atmosfere montane da thriller cupo de La ragazza nella nebbia, evidentemente citazionista (fra i molti spunti utilizzati) rispetto al Twin Peaks di David Lynch, Carrisi decide di pigiare imprudentemente sull'acceleratore dell'ambizione, cambiando il setting, le sfumature caratteriali dell'eroe protagonista e il mood dell'opera, camuffando il suo thriller con qualcosa di molto vicino all'horror psicologico.

Scelte che, purtroppo, non premiano il romanziere/sceneggiatore/regista nativo di Martina Franca.

L'esasperazione dei toni, le ambientazioni poco coinvolgenti e credibili, la fotografia "bucata" di Federico Masiero, oltre a una sceneggiatura forse un po' troppo ingarbugliata (un intreccio a mosaico non deve essere solo comprensibile, ma anche funzionale e non cervellotico da ricomporre), rendono L'uomo del labirinto un'opera dotata di un'identità non ben precisata.

"Non è horror, non è noir: sa solo quello che non è" semicit.

 

 

[Toni Servillo, protagonista de L'uomo del labirinto]



E se gli elementi sopracitati sono "fuori giri", lo stesso si può dire del vecchio leone Servillo che, da algido e tormentato Ispettore Vogel de La ragazza nella nebbia si trasforma in un personaggio troppo caricaturale, vittima della propria rappresentazione streotipata, fatta di sandali, camicie sudate e "servillate" che, se in molte altre pellicole erano state funzionali, ne L'uomo del labirinto risultano solo eccessive e fuori fuoco.

 

Se7en, I soliti sospetti, The Game, Il silenzio degli innocenti, Saw - L'enigmista... i probabili modelli di riferimento sono molti, ma non servono a Carrisi per evitare che il suo  film si ripieghi su sé stesso, travolto da un intreccio nebuloso che ricalca (di nuovo: male, purtroppo) fin troppo la sua opera prima, privando lo spettatore che aveva apprezzato la pellicola del 2017 di qualsiasi tipo di sorpresa al momento del - telefonatissimo - plot twist finale.

 

 

[Il trailer de L'uomo del labirinto, in sala dal 30 ottobre 2019]

 

 

Il mostro della storia non emerge, non graffia e non spaventa, restando solo una delle tante figure indistinte presenti nel film.


Anche se indossa quella che dovrebbe essere un'inquietante - in realtà dimenticabile - maschera che finisce solo per fare un dispetto alla sottile ansia che spezzava l'animo dello spettatore che, nel 2001, si apprestava a guardare negli occhi vitrei di Frank,  l'angosciante coniglio di Donnie Darko.

L'uomo del labirinto lascia sul palato il sapore di un'inspiegabile occasione mancata per uno scrittore che, al primo colpo sparato, si era presentato sulla scena cinematografica dimostrando di avere solidi riferimenti letterario/cinematografici e un immaginario affascinante da mettere in scena al servizio delle sue storie.

E il tiepido applauso al termine della proiezione della prima milanese di ieri sera - riscaldato solo dalla presenza in sala del produttore esecutivo Toni Servillo - ne è la mesta testimonianza.

 

 

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