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First Man - Il primo uomo: un anno dopo

Considerazioni sparse a un anno dall'uscita dell'ultimo film di Damien Chazelle.

È passato un anno dall’uscita nelle sale italiane di First Man, l’ultimo lavoro di Damien Chazelle che racconta la storia di Neil Armstrong, il primo uomo a mettere piede sulla Luna.

 

Il film si inserisce nel quadro globale di grande popolarità del genere biopic, che ha visto negli ultimi anni un proliferare di produzioni e di conseguenti successi commerciali, riuscendo però secondo me a staccare, e non di poco, il livello qualitativo medio di quest’ondata di film.

 

Il giudizio storico, si sa, non è competenza dei contemporanei, e certamente l’anno passato non ci basta per inquadrare l’opera all’interno né della filmografia del prodigio franco-americano, né del suo più ampio ruolo nel panorama cinematografico, vale a dire nella sua capacità di influenzare il modo di pensare, fare o recepire film.

 

 

 

Nondimeno, credo possa essere ritenuto un passo importante nella breve carriera del regista, di quelli che tra qualche lustro verranno magari ricordati come la consacrazione della sua ascesa a Hollywood.

 

Difatti, penso che in First Man possiamo osservare tutti i segnali di quella che potrebbe essere definita la maturità artistica di Chazelle, che alle prese con il terzo genere diverso in quattro lungometraggi dirige con grande originalità e una chiara visione: se da una parte sono riconoscibili tutti gli stilemi della sua poetica, di cui parlerò a breve, la chiave di lettura è esattamente ciò che lo differenzia dalla ventata di film biografici che abbiamo avuto modo di vedere al cinema di recente.

 

Sono dunque le prerogative del genere biografico a mettere di fronte al giovane filmmaker la necessità di un mutamento, di una trasformazione, della formulazione di un linguaggio filmico conveniente ad offrire una prospettiva originale su un episodio… che inevitabilmente conoscono tutti.

 

First Man narra la storia di Neil Armstrong, della sua missione Apollo XI, del suo allunaggio.

 

Pongo l’aggettivo possessivo dinanzi a quelle che sono opere dell’Umanità (e non di un solo uomo) per una ragione precisa: questo film s’intitola e parla del First Man, e non di ciò che ha compiuto o significato per la collettività, per la scienza o la civiltà.

Chazelle sceglie la più grandiosa delle cornici per narrare la storia dell’uomo, della sua vicenda privata, del suo essere padre e marito prima che ingegnere e pioniere.

Tant’è vero che il film inizia con la più personale delle vicissitudini: il lutto familiare.

 

Neil Armstrong perde la figlia Karen, di pochi anni, per le complicanze polmonari di un tumore al cervello.

 

 

È così che Chazelle fa cominciare il suo racconto, decidendo di tenerlo sullo stesso binario per tutta la durata del film, e rendendo così la vicenda dell’allunaggio, per quanto possa sembrare assurdo, quasi un MacGuffin, ovvero un espediente narrativo necessario per lo sviluppo dell’intreccio, ma al di fuori degli intenti espositivi dell’autore.

 

 

 

 

Procediamo in ordine, accennando alla trama e ad alcuni sviluppi che ritengo significativi.

 

Sin dal principio di First Man siamo immersi nel personaggio interpretato da Ryan Gosling, alla sua seconda collaborazione con il regista.

I titoli di testa lasciano il posto a una vibrante (letteralmente) sequenza di volo aereo, in cui il pilota della NASA commette un errore e rischia di perdere il controllo del velivolo, sfondando perfino l’atmosfera terrestre per qualche secondo.

Riuscirà a salvarsi con una manovra d’emergenza, atterrando precipitosamente in un deserto californiano. Immediatamente dopo la scena dell’incidente ascoltiamo, in un accenno di conversazione tra alcuni ingegneri, l’emergere di alcuni dubbi sulla recente condotta del pilota.

 

Siamo così introdotti alla problematicità di natura personale di cui ho sopra accennato, il turbamento che scopriamo provenire dalla malattia fatale della secondogenita.

 

Neil, da subito caratterizzato da un ferreo stoicismo che Gosling riesce naturalmente a trasmettere, reagisce al dramma decidendo di concorrere per una delle posizioni da astronauta del progetto Gemini, quella che allora doveva essere la risposta statunitense ai successi dell’Unione Sovietica nel campo dell’esplorazione spaziale.

Con la famiglia si trasferisce dunque a Houston, dove con altri astronauti segue un duro programma di allenamento fisico e di preparazione teorica alla Missione, al sogno dell’allunaggio.

 

Passano anni e il precario equilibrio domestico seguito alla scomparsa della figlia viene costantemente minacciato dalla consapevolezza della pericolosità della missione, mai reso così potentemente come nel film di Chazelle, tanto da ricevere il plauso del collega Edgar Wright, che ne ha esaltato questo aspetto in un tweet pubblicato a pochi giorni dalla Première.

 

Puntuali giungono le tragiche conferme: due astronauti dello stesso progetto muoiono in un test prova, seguiti poco dopo da tre altri piloti, uccisi in un incendio scatenatosi nella cabina di comando.

 

Neil, nonostante perda amici e compagni e affronti sulla propria pelle la follia di un proposito spinto da interessi più politici che scientifici, non molla di un centimetro, quasi mosso da una missione propria o, forse, lo si può percepire, intento a ridare alla propria vita una ragione d’essere, smarrita dopo l’addio alla figlia Karen.

 

 



La moglie Janet, in una delle migliori interpretazioni di Claire Foy, tiene insieme i pezzi frantumati di una famiglia che sente la mancanza della presenza paterna, autoesclusosi, consciamente o meno, da ogni dinamica familiare.

 

La sensazione che trasmette è quella di una donna estremamente forte, impaurita, vacillante, ma che trova la forza di sostenere l’irrazionale intento del marito nella consapevolezza che non ha una vera scelta.

Bella, tra le altre, la sequenza in cui, intransigente, gli intima di assumersi la responsabilità di informare i figli prima della partenza definitiva per la Luna.

 

L’ultima scena di First Man è un silenzioso ricongiungimento tra lei e Neil, in quarantena post-missione, silenzio splendidamente colmato dal più bel pezzo della colonna sonora composta dal fidato Justin Hurwitz, che sceglie l’arpa come strumento principe attorno a cui muovere le musiche del film.

 

L’insieme delle scelte tecniche adoperate da Chazelle è coerente con quelli che credo essere i suoi intenti, ovvero la narrazione della storia di Armstrong e dei suoi personalissimi moventi.

 

Vi è un’abbondanza di primissimi piani, di particolari e di dettagli, con la macchina da presa costantemente in movimento, vibrante, a seguire le tensioni e i nervosismi che costituiscono per la maggiore il sottostrato emotivo di First Man.

Da questo punto di vista un paragone un po’ azzardato potrebbe essere quello con Darren Aronofski e il suo Cigno Nero, nell’eccedenza di soggettive e semi-soggettive molto “scosse”, che accompagnano la protagonista Nina lungo tutto il film.

 

Gli interni delle cabine di pilotaggio sono quasi sempre bui e l’unico piccolo oblò, che fa da “finestra” sull’universo, conferisce una spaventosa sensazione di occlusione, esasperata da focali lunghe che restringono l’angolo di campo e rendono, complici le feroci vibrazioni della navicella, l’esperienza cinematografica del volo mai così precaria e percepibilmente pericolosa.

 

Una scelta, questa di Chazelle, che viene ovviamente a un costo: quello di rinunciare a una fotografia grandangolare, spettacolare, perfettamente confacente al contesto dell’esplorazione spaziale e delle sue oscure meraviglie.

I pochissimi grandangoli in orbita richiamano il Cursus Honorum di un film sullo spazio, e con ciò chiaramente sottintendo il riverente riferimento a 2001: Odissea nello Spazio.

 

Degna di menzione fotografica vi è infine la stupenda sequenza lunare, girata interamente in 70mm IMAX (il resto di First Man è girato in pellicola 35mm e 16mm, #filmisnotdead), che è il vero dulcis in fundo riservatoci dal buon DoP Linus Sandgren, su cui però non dirò nulla perché è tutto da vivere e non vorrei rovinare quel poco che accade… perché poco non è. 

 

 

 

 

Se due non fossero bastati, tre lavori d’alto livello potrebbero essere sufficienti a collocare Damien Chazelle nell’Olimpo dei più grandi registi in circolazione.

 

Io, almeno, credo che davvero pochissimi possano vantare un esordio del genere, che affianca all’indubbia qualità del girato anche la versatilità di aver diretto tre film completamente diversi e completamente (la Crusca me lo perdonerà) chazelliani.

 

Sottolineo quest’ultimo punto perché è emerso quasi naturalmente nelle varie discussioni post-proiezione che mi sono trovato ad avere: in First Man ci sono Stanley Kubrick, Alfonso Cuarón, Terrence Malick, ma soprattutto… c’è Chazelle.

 

Lo stile, la poetica, la semantica evocata, tutto abbraccia una visione del narrare cinematografico propria ed intima del giovane regista.

Intima.

È il suo modo di affrontare una storia tra le più significative del XX secolo riuscendo a non farne un’epopea di grandezza umana, di ricordare come i grandi avvenimenti della storia siano immancabilmente legati alle vicende di singoli uomini, alle loro inquietudini e al loro modo di reagire.

 

Paradossalmente, credo che Chazelle abbia affidato questo messaggio allo stralcio del discorso del Presidente John Fitzgerald Kennedy che Neil, al rientro dalla missione, sente in televisione:

 

“There is no strife, no prejudice, no national conflict in outer space as yet. Its hazards are hostile to us all. […].

But why, some say, the Moon? Why choose this as our goal? […].

 

We choose to go to the Moon!

We choose to go to the Moon in this decade and do the other things, not because they are easy, but because they are hard; [...] because that challenge is one that we are willing to accept, one we are unwilling to postpone, and one we intend to win, and the others, too.”  

 

"Ad oggi nello spazio non c'è ancora alcuna contesa, alcun pregiudizio, nessun conflitto nazionale. I suoi pericoli sono avversi a noi tutti. [...].

Ma perché, qualcuno chiede, la Luna? Perché scegliere questo come nostro traguardo? [...].

 

Abbiamo scelto di andare sulla Luna!

Abbiamo scelto di andare sulla Luna in questo decennio e di impegnarci in altre imprese, non perché sono semplici, ma perché sono ardite; [...] poiché questa è una sfida che ci proponiamo d'accettare, una che non siamo disposti a rimandare, una che intendiamo conquistare e, con questa, tutte le altre."

 

 

Neil ha iniziato ad andare sulla Luna nel momento in cui ha perso Karen.

E quando ci è arrivato, sulla Luna, le ha detto finalmente addio.

 

 

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