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Pelican blood - Recensione: oltre i confini dell'amore-sacrificio materno - Venezia 2019

Il dovere di annientarsi? 

Interessante sopra ogni cosa per il mestiere del critico è estirpare l'essenza del prodotto artistico che si riecheggia, il nodo dal quale si dipani l'intreccio.

 

Non certo l'intreccio interno alla pellicola, bensì l'intrico di percorsi mentali che portano un autore, un'autrice di film, a decidere di trattenere la sua ispirazione per un anno almeno, richiamando attorno a sé centinaia di figure professionali, a loro volta affascinate da quel primo moto.

Da quel motivo.

 

Il critico stende il suo processo alle intenzioni che ha appena terminato di vedere cristallizzate nella forma di film finito.

Talvolta è ostico e pretenzioso, in altri casi l'idea prima è a tal punto lampante da essere ostentata nel titolo stesso del film.

 

 

 

È il caso di Pelican Blood (Sangue di Pellicano).

 

Vale la pena di chiarire da subito il suo nome.

 

Il riferimento è a un'allegoria, nello specifico un richiamo alla figura cristologico-eucaristica del sacrificio estremo, e forse a una pratica effettivamente riscontrata dalla zoologia che vedrebbe la figura del pellicano madre, di fronte alla morte dei propri figli, ferirsi il petto tramite il suo becco e, nutrendo con il sangue i corpi morti (o comunque grevemente offesi), resuscitarli. 

 

L'atto del martirio in filosofia morale fa parte delle pratiche cosiddette "super-erogatorie", vale a dire tutto ciò che oltrepassa il piano degli obblighi morali e travalica nell' "oltre il proprio dovere", andando a stabilire quella che potremmo chiamare "morale dei supereroi" o "morale dei santi".

 

Tutto ciò che non costituisce obbligo morale per nessuno ma che allo stesso tempo è, naturalmente, una buona azione. Il sacrificio totale di sé per il prossimo è precisamente questo.

 

E da questo "motivo", appunto, mossero le intenzioni della regista e sceneggiatrice tedesca Katrin Gebbe che declina questa immagine nel rapporto fra una madre e la sua figlia non biologica.

 

Pelican Blood racconta infatti di un'adozione fra le più faticose immaginabili: Reya è una bambina che ha subito un trauma precoce significativo.

La sua emotività non ha mai avuto occasione di rinforzarsi. 

 

L'apparente idillio dei primi giorni lascia spazio all'esplosione del suo disturbo reattivo da attaccamento.

Raya teme di perdere il controllo sugli adulti che apparentemente si stanno finalmente prendendo cura di lei e per questo mette in atto una serie di comportamenti che vanno dal semplice mentire, 

"Raya teme di perdere il controllo dandoci la risposta giusta" fino ad estreme conseguenze che mettono in pericolo la sua vita e quella di una comunità che sempre più vuole prendere le distanze da lei.

 

 



Gli atteggiamenti impossibili finanche inquietanti di Raya, di appena 5 anni, sono inscenati in Pelican Blood con incredibile verosimiglianza e suscitano un fortissimo senso di repulsione e stress nello spettatore, che si ritrova ad empatizzare potentemente con la madre e a vivere con lei il concetto che, come la stessa regista in conferenza stampa, ha tenuto a sottolineare attraversa l'intera opera: il dilemma.

 

Come reggere la pressione distruttiva di una psiche spezzata?

Ad aggravare il quadro vi sarà la figlia biologica di Wiebke, di qualche anno più grande, che accusa a sua volta una carenza di affetto in quanto inevitabilmente trascurata dalla madre, a tal punto assorbita da Raya.

 

Ed è così che da metafora in metafora la regista sceglie di innestare in Pelican Blood una seconda figura di confronto.

 

La professione di Wiebke è quella di addestrattice di cavalli usati dalla polizia nelle operazioni antisommossa.

Questa immagine è fortemente significativa poiché richiama in antitesi l'operazione che la donna sceglie tenacemente di compiere su Raya: tanto il fine è rendere i cavalli insensibili ai traumi, quanto ciò che si cerca è di ridare paticità alla psiche della bambina traumatizzata.

 

La letteratura medica ci ha da tempo reso edotti sull'effettivo stato di profondo deterioramento al quale vanno incontro i centri neurologici dell'empatia in soggetti a tendenza socio-psicopatologica.

Spesso seguito diretto di un trauma affettivo precoce.

 

Atteggiamenti antisociali come la tortura degli animali, la violenza, la piromania portano chi li subisce a vivere l'inestricabile dilemma fra lo sbarazzarsi di tali anomalie rinchiudendole in centri di detenzione e lo sperare in una guarigione per via di pratiche che cercherebbero di ricomporre la "nevrosi", subendo nel frattempo l'annientamento di sé dato da stress, isolamento sociale e istinto di conservazione.

 

 



Raya fa paura.

 

Le sue dissociazioni - la cosiddetta "fase magica" - evocano una presenza maligna al suo interno, e se da una parte la psichiatria spiega che si tratti di ulteriori meccanismi psicologici di difesa atti allo scaricamento del senso di colpa su un individuo esterno a sé stesso che imporrebbe il soggetto di compiere le azioni riprovevoli, dall'altra è senza dubbio legittima ogni forma di superstizioso timore nei confronti, specie qualora sottoposti ad una tale pressione sociale e psicologica come Wiebke.

 

Riguardo a questo tema suggerisco la lettura del libro omonimo al capolavoro di William Friedkin L'esorcista, dove psichiatria e esoterismo si mescolano con molta più accuratezza.

 

E che i comportamenti di Regan siano scientificamente spiegabili o se sia vittima effettivamente di una possessione non ci è dato di stabilirlo con certezza nemmeno nell'ultima pagina del testo. 

 

Cosa è giusto fare, cosa è obbligatorio fare, cosa farà la madre?

 

Pelican Blood spinge agli estremi confini le implicazioni dell'amore-sacrificio materno.

Forse, spesso, il più vicino esempio di atto super-erogatorio.

 

Partorire, dopotutto, non è spingere i propri confini oltre sé sopravvivendosi? 

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