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Karamea: intervista al regista Marco Gianstefani

Intervista a Marco Gianstefani, regista del documentario Karamea: quanto siamo distanti da una realtà sociale del genere, cosa gli ha insegnato Karamea, cos'è per lui la felicità

Vi sarete accorti che in questi giorni, grazie a Movieday, per alcune sale italiane sta girando un film dal nome singolare: Karamea - Is This the End of the Road? Ma, mentre il vostro amico che non segue CineFacts.it (com'è che è ancora vostro amico?) non aveva idea di cosa si trattasse, voi che ci seguite e che avevate già letto la recensione, gli avete spiegato che è l'ultimo documentario del regista Marco Gianstefani.

 

Pochi giorni fa Karamea è stato proiettato al Cinema Galliera di Bologna, da tempo sostenitore della piattaforma Movieday grazie a cui numerosi documentari e film indipendenti vengono distribuiti, avendo così la possibilità di vedere la luce... del proiettore!

 

In sala c'era anche il regista del doc che, nonostante fosse reduce dal viaggio di ritorno dalla Nuova Zelanda, a fine proiezione ha risposto alle numerose domande del pubblico e alla fine, ciliegina sulla torta, ha concesso un'esclusiva intervista a noi di CineFacts.it.

 

 

 

 

La moderatrice dell'incontro, la mitica Marte Bernardi che gestisce "il cinema più underground e underchurch di Bologna" [il Cinema Galliera si sviluppa precisamente sotto una chiesa, ndr], come le piace ricordare prima di ogni proiezione, parte con le domande:

 

Che cosa ti ha spinto in questa località?

Come ci sei capitato e perché hai voluto raccontare una storia del genere?

 

Marco Gianstefani

È una storia un po' lunga, nel senso che ci sono capitato per caso, non avevo nessunissima intenzione di restare in Nuova Zelanda.

Stavo viaggiando in giro per il mondo e stavo seguendo il blog di un fotografo - quando viaggio seguo sempre i blog dei fotografi - e diceva di andare a Karamea, anche se ci voleva un giorno per andare un giorno per tornare, ma ne sarebbe valsa la pena.

E sono andato.

 

Oltre alle bellezze naturali che avete visto, che sono molto tipiche della Nuova Zelanda, mi sono innamorato delle persone.

Sono stato un giorno, poi un altro giorno, un altro giorno ancora... e poi ho deciso "riprendo qualcosa!".

All'inizio volevo fare un trailer, vedere se c’era una storia o no e poi cercare fondi.

Alla fine sono rimasto tre mesi e sono uscite 120 ore di girato. 

 

 



Ecco, diciamoci la verità, quanto tempo hai impiegato per girare questo documentari?

 

Ci ho messo cinque anni.

Nel frattempo sono successe un po' di cose, mi sono accorto che mi mancavano delle parti di girato, sono tornato a Karamea, c'è stato un incidente, chiamiamolo burocratico, con l'immigrazione neozelandese che mi ha rispedito fuori dal paese - tecnicamente deportato - per cui ho dovuto aspettare due anni per uscire da tutta la battaglia di avvocati.

 

Poi sono potuto tornare in Nuova Zelanda grazie al ministro dell'immigrazione neozelandese che mi ha concesso un visto speciale.

Ho girato quello che mi mancava, ho messo insieme tutto grazie a un paio di amici e ora stiamo iniziando la distribuzione.

 

Immagino abbiate fatto una proiezione anche in Nuova Zelanda.
Com'è stato accolto il documentario?

 

Ero un po' preoccupato, ma è stato accolto molto bene.

Era come se un neozelandese venisse a giocare a calcio in Italia.

Stavo andando a raccontare ai neozelandesi loro stessi, sentivo come se stessi andando a imporre la mia visione... invece è stato accolto bene!

 

 



La Bernardi si rivolge scherzosamente al regista:

Tu lo sai che adesso hai fatto scoprire una nuova meta turistica?

 

Speriamo di no!

In tanti mi hanno chiesto "Ma come sei riuscito a scovare Karamea? Ci andremo sicuramente!" però, secondo me, le persone che vedono il documentario e decidono di andare a Karamea sono le persone giuste, quelle che vogliono andare a contribuire, che vogliono andare a godersi le persone.

 

La parola passa al pubblico che inizia con diverse domande:

A Karamea che lavori si fanno per guadagnare?

 

Ci sono un paio di fattorie per cui puoi lavorare, intendo con le mani, puoi lavorare il terreno.

Quattro-cinque ore al giorno.

 

Qualcuno lavora nella scuola, qualcuno [uno, ndr] fa il poliziotto, c'è chi ottiene un lavoro governativo, ma come si dice alla fine del film è complicatissimo lavorare lì: o minimizzi completamente i tuoi bisogno per cui ti serve l'indispensabile e riesci a fare da solo, anche solo con il 10-15% di tutto ciò che abbiamo noi, se no è impossibile pensare "vado, trovò lavoro Karamea e vivo lì".

Pochissimi ci provano e ancora meno ce la fanno. 

 

 



Perché di tanti posti nel mondo proprio Karamea?

 

È una domanda che mi hanno fatto più volte.

Mi è sembrato che Karamea avesse una particolarità del modo spontaneo in cui esistesse.

In tanti la chiamano "comunità", in realtà non è una comunità come siamo abituati a pensarla noi.

 

C'è senz'altro un grande senso di comunità.

È un'aggregazione spontanea di persone che arrivano da diverse parti del mondo, che stanno lì perché c'è una certa magia e stanno bene insieme.

 

Quando entrando a Karamea vedi il cartellone "Welcome to Paradise" rimani impressionato perchè per il luogo, le persone, poi ti rendi conto che è davvero un Paradiso.

 

 

 

 

Le persone si facevano intervistare abbastanza facilmente?

Come hai fatto a tirar fuori loro qualcosa?

 

Innanzitutto è la Nuova Zelanda, e lì la gentilezza delle persone è incredibile.

E un’altra cosa è che dopo un po’ io ho iniziato ad essere parte del posto: vedevano queste italiano che girava con cavalletto, telecamera, mi chiedevano "Ehi! Tutto bene?", mi invitavano a prendere un caffè e a chiacchierare, scoprivano che dovevo girare un documentario e io chiedevo "Ma ti va se ti faccio due domande, se ti intervisto?".

 

Non essendo stata una produzione "pensata" ho avuto il vantaggio di essere lì da solo, sedermi con loro e fare delle chiacchierate che non erano vere e proprie interviste, non c’era qualcosa di scritto, di pensato, non c’è mai stato un canovaccio per cui dovessi chiedere questo e quest’altro.

 

Erano incontri lunghissimi pieni di parole intense e a volte siamo entrati molto in intimità

Forse ha aiutato anche il fatto che fossi io stesso in un momento in cui stavo cercando di capire se vivere come viviamo noi tutti giorni, con tutte le comodità che abbiamo, fosse giusto.

 

Quanti anni fa è nata questa aggregazione spontanea a Karamea?

 

Fino agli anni '80 Karamea era una specie di porto, poi non c’è stato niente per un po’ di tempo.

A metà degli anni '90 hanno aperto un cammino molto lungo che passa da un lato all’altro dell’isola e che attira un po’ di turisti.

Questo ha fatto sì che sempre più gente iniziasse a passare da lì. 

 

 



Secondo te, cosa di Karamea è replicabile per chi rimane in una realtà urbana?

 

Io da Karamea mi sono portato via il tempo.

Il fatto di poter dare più valore al tempo.

È fondamentale riuscire a dedicare più tempo alle cose tue, a te stesso.

 

Il tempo di Karamea è chiamato "Karamea-time" ed è veramente diverso dal nostro.
Il nostro dover correre, dover fare dare importanza a cose che in realtà non sono tanto importanti...

Quando arrivi è uno shock, è la cosa che ti arriva prima: pensi "Com’è che queste persone sono così?"

E, in effetti, la maggior parte della gente che arriva dopo un anno non ce la fa più.

Ci sono pro e contro, però il tempo è la cosa più bella che ho portato a casa.

 
Pensi di tornare?

 

Sì, penso di tornarci, ma non per adesso.

Mi sono portato a casa quello che dovevo portarmi: capire che si può vivere in una maniera diversa.

 

 

 

 

Finito l'incontro con il pubblico della gremita sala, abbiamo avvicinato Marco Gianstefani che, disponibilissimo, ci ha concesso un altro po' del suo tempo nonostante:

 

"Sono reduce da un viaggio di 20 ore di ritorno dalla Nuova Zelanda, sono atterrato, ho preso un treno e sono venuto qua...

Se ti dico delle cose strane non farci caso!"

 

Sentendoci colpevoli nell'esserci intromessi tra lui e il letto di casa, gli abbiamo promesso che nel caso avremmo tagliato le parti "strane"... ma non ce n'è stato bisogno.

 

Morena Falcone:

Nel tuo documentario, tramite le interviste ai vari personaggi che danno vita a Karamea, passa il messaggio che non è tanto importante un'idea assoluta dello stare bene - che forse neanche esiste - quanto ciò che fa stare bene te come singolo individuo, qualcosa di molto soggettivo.
Qual è la tua idea dello stare bene?

 

Marco Gianstefani:

Lo stare bene, secondo me, è legato al fatto di essere nel presente.

Quando vivi nel passato sei un po’ ansioso, pensi "Non devo fare di nuovo questo sbaglio, non devo ripetere quell’altra cosa".

Vivere nel passato non va bene.

 

In tanti, poi, vivono nel futuro: i programmi, cosa arriverà...

Siamo tutti presi dal "succederà", dal calendario, oppure dal vivere nei ricordi.

Il presente viene valorizzato sempre meno.

 

Avere la possibilità, il tempo e la capacità di vivere di più nel presente: questo a me Karamea l’ha insegnato.

Non so se è la felicità in sé, ma sicuramente uno degli elementi che può portarti a molta più felicità.

Se le persone vivessero nel presente sarebbero più felici, me compreso.

 

MF: Quindi vivere il presente e, seguendo il consiglio del professor Keating ne L'Attimo Fuggente, cogliere l’attimo?

 

MG: E goderselo, soprattutto.

Perché coglierlo è una roba molto anni '80, occidentale, "Dai cavolo! Cogli il momento!".

Goderselo è quello che dovremmo fare sicuramente di più. 

 

 



MF: Ciò che Karamea ha cambiato nella tua vita è stata la gestione del tempo: sei riuscito a dare le priorità alle cose di tutti i giorni?

 

MG: Sì, si tratta proprio di priorità, di capire che ci sono cose importanti e cose che non sono importanti, cose che pensiamo possano rendere felici ma invece non ti portano da nessuna parte.

Passare tre ore su Facebook magari ti fa staccare il cervello ma non ti rende felice, non ti dà niente.

 

Riuscire a stare due ore con i tuoi pensieri può essere l'inizio per riflessioni un po’ più lunghe, più profonde.

 

MF: Perché non ti trasferiresti a Karamea?

 

MG: Non ce la farei, ci sono stato tanto ma comunque avevo bisogno... di andare al cinema, di andare a un concerto, di conoscere persone nuove, anche se in realtà ogni settimana arrivava gente nuova, però...

Viaggiare tanto, vedere cose nuove... un piatto di pasta!

 

MF: Nel tuo documentario si respira Jack Kerouac, Jon Krakauer, tanto David Thoreau.
Non so se questi scrittori abbiano mai fatto parte della tua crescita ma, secondo te, c'è qualche lettura della tua infanzia o adolescenza che ti ha più o meno consciamente ispirato?

 

MG: C’è un libro che mi ha stregato quand’ero piccolino e secondo me mi aiutato, non tanto nella tematica quanto nella struttura.

Adesso hai visto un documentario in cui ci sono più di 50 facce e mi sono sempre detto "Questo deve essere come il libro di Edgar Lee Masters, l'Antologia di Spoon River perché è attraverso le storia che riesce a raccontare un posto. 

 

Poi non c’entrano niente il cimitero, i morti, però è il concetto di struttura: fare un grande sondaggio su Karamea, su com’era, com'è, come sarà e, se riesco raccontare un po’ di storia, forse poi riuscirò a dare una visione completa del posto.

 

Questa è un po’ quella che penso sia stata l’influenza.

 

 

 

 

Usciamo dal cinema - che ormai aspettava solo noi per chiudere - contenti per le genuine parole ascoltate da Marco Gianstefani, non vedendo l'ora di mettere giù questa intervista per invogliare altre persone ad andare in sala e, senza prendere l'aereo, farle viaggiare verso la Nuova Zelanda. 

 

Trovando (forse) alla fine della strada la magica cittadina di Karamea.

  

KARAMEA - Trailer - ITA Subs from Marco Gianstefani on Vimeo.

 

Per le immagini dell'articolo si ringrazia la pagina Facebook di Karamea - The Movie.

 

 

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