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Black Mirror Stagione 5 - Recensione: la definitiva trasformazione di una serie

La serie di culto firmata Charlie Brooker abbandona quasi del tutto i temi che l'hanno resa famosa 

Tra il 2011 e il 2012 su Channel4 arrivò Black Mirror: nata dalla penna di Charlie Brooker - già autore dell'apprezzato Dead Set, dove gli zombie assalivano la casa del Grande Fratello britannico - la serie si fece subito notare per il suo pessimismo nel mostrare le devianze della nostra società e il rapporto malato che ognuno di noi ha con la tecnologia, con un occhio di riguardo nei confronti dei device come smartphone, tablet e personal computer. 

 

Il Black Mirror del titolo non è altro che lo schermo dei nostri apparecchi, dove ci specchiamo una volta spento. 

Con il passare degli anni e l'incessante lavoro del passaparola, da serie culto Black Mirror è divenuta nota ai più, soprattutto grazie al passaggio su Netflix avvenuto nel 2016 con la terza stagione. 

 

I fan di vecchia data percepirono immediatamente che nel passaggio di consegne qualcosa era cambiato: Brooker si era un po' ammorbidito e i graffi allo stomaco che davano i primi episodi erano diventati più leggeri. 

 

Pur conservandone i temi di base, Black Mirror non aveva in quei 6 nuovi episodi la cattiveria dimostrata nei precedenti 7. 

 

Con la quarta stagione le cose andarono sempre più in quella direzione: pubblicata sulla piattaforma streaming pochi giorni dopo il Natale 2017, presentava alcuni episodi riusciti ed altri molto lontani da quello che i fan erano abituati a vedere.

 

Dopo l'esperimento interattivo Bandersnatch, la quinta stagione di Black Mirror è arrivata su Netflix il 5 giugno 2019, con tre nuovi episodi da un'ora l'uno.

 

E pare proprio che ormai di "black mirror" ci sia rimasto davvero poco, e che quel poco sia talmente leggibile e superficiale che ci si chiede se la cosa sia davvero dovuta a una scelta consapevole oppure a una mancanza di idee da parte dello showrunner. 

 

Più che i plausibili e distopici futuri prossimi o remoti, Brooker in questa stagione ha scelto di raccontare il presente, solo in un'occasione leggermente spostato in avanti, per parlare in tre cortometraggi fondamentalmente della stessa cosa: la dipendenza. 

 

___________________________

 

 

 

Striking Vipers (Il Morso della Vipera) 

 

Di Owen Harris

Con Anthony Mackie, Yahya Abdul-Mateen II, Nicole Beharie 

 

Il corto parla di due uomini, che da giovani condividevano l'appartamento assieme alla fidanzata di uno dei due, che si ritrovano adulti e tornano a condividere la passione nei confronti di un videogioco picchiaduro, stile Street Fighter. 

 

La tecnologia odierna della realtà virtuale permette loro di entrare fisicamente nel gioco, provando le emozioni e il dolore provati dai personaggi che si sfidano, ma la cosa avrà un risvolto inaspettato. 

 

La dipendenza dai videogiochi è una realtà, recentemente inserita nel novero delle patologie riconosciute dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, e i due protagonisti di Striking Vipers ne sono evidentemente affetti. 

 

 



La vita familiare da una parte e l'insoddisfazione personale dall'altra spingono Danny (Anthony Mackie) e Karl (Yahya Abdul-Mateen II) a rifugiarsi sempre di più nel mondo virtuale, dove entrambi possono trovare quella pienezza che cercano nel mondo fisico. 

 

Striking Vipers utilizza questo espediente per parlarci in realtà di un'altra cosa, ovvero l'accettazione di sé: quello che succede nel videogioco è inaspettato sia per lo spettatore che per i protagonisti, ma se è vero che noi riusciamo ad accettare i "nuovi" Danny e Karl, sono loro che non riescono a comprendere le loro scelte e, anzi, nel caso di Danny questo è fonte di una tremenda confusione, nata dalla negazione di accettare cosa veramente sia e cosa davvero voglia nella sua vita. 

 

Il corto a mio avviso è realizzato molto bene, ma la scrittura pecca di qualche ingenuità e banalità: i protagonisti sono a tutti gli effetti degli stereotipi, sia quando sono giovani che passano il loro tempo a ballare, fumare marijuana e giocare ai videogiochi, sia da adulti dove uno fa i barbecue di compleanno con le famiglie dei piccoli amici dei figli e l'altro a quasi quarant'anni gioca a fare il latin lover con ragazze molto più giovani di lui che non colgono i suoi riferimenti a personaggi famosi degli anni '90.  

 

 



Lo svolgimento di Striking Vipers sembra già scritto dall'inizio, e il finale è più un compromesso da "vissero felici e contenti" piuttosto che una chiusa che dovrebbe farci riflettere sulle conseguenze delle nostre scelte, sopite o palesi che siano.  

 

Certo c'è del coraggio nel prendere un attore come Mackie, universalmente ormai noto come il Falcon degli Avengers, e un attore dalla fisicità virile come Abdul-Mateen per porli in una situazione simile: per il grande pubblico probabilmente ancora oggi una storia del genere può dare vita ad imbarazzo e sopracciglia alzate, perché si è abituati a vedere le persone che hanno preferenze sessuali diverse dalla maggioranza dipinte come pittoresche, più che come persone esattamente come tutte le altre. 

 

Il coraggio di partenza però si rivela poi abbastanza pudico, perché sceglie di mostrarci le scene solo nella realtà virtuale, dove i due sono infatti rappresentati da due stereotipi e simboli sessuali per entrambi i sessi, quando nella vita reale l'unico scambio che avviene è frettoloso e sconcertato. 

 

Se è vero che la zona erogena più potente di tutte è il cervello, allora Striking Vipers coglie in pieno la cosa. 
Ma ho l'impressione che questa sia solo una giustificazione a posteriori e non un'autentica intenzione narrativa. 

 

___________________________

 

 

 

Smithereens (In pezzi)

 

Di James Hawes

Con Andrew Scott, Damson Idris, Topher Grace

 

Un tassista si apposta accanto alla sede londinese di una grossa compagnia che ha in mano il social network più famoso del mondo, in attesa di caricare un cliente che lavori per loro e raggiungere così il suo scopo. 

 

Il protagonista è Andrew Scott, che grazie a un personaggio psicotico e sfaccettato può mettere in mostra tutta la sua bravura già dimostrata in precedenza (Sherlock, Pride).  

 

Smithereens è a mio avviso il migliore dei tre nuovi episodi di Black Mirror: la tensione è costruita molto bene, il vero obiettivo di Chris (Scott) resta oscuro fino alla fine e tutto il giallo che si monta sulla sua figura e sul suo passato, mediante le scoperte che su di lui fanno la polizia, l'FBI e soprattutto la compagnia del social network, che grazie all'accesso completo al suo profilo riesce a capire chi sia e - forse - cosa vuole davvero.  

 

 

 

 

Non manca anche qui il ricorso al cliché: il proprietario del social network viene dipinto come un uomo che vuole allontanarsi dalla tecnologia e per questo si rifugia in un posto ameno distante da tutto e da tutti - inutilmente, perché verrà comunque raggiunto - e ci sono anche i classici "poliziotti che brancolano nel buio".

 

Ma la scelta della regia di raccontarci cosa avviene stando spesso al di fuori dell'abitacolo dell'automobile dove si trovano Chris e il passeggero è vincente. 

La critica "à la Black Mirror" è in questo caso dichiarata, lampante e fin troppo didascalica: il fatto che ognuno di noi viva con la faccia attaccata allo smartphone e che i social network creino dipendenza in chi li usa è qualcosa di cui si parla abitualmente, sul quale si stanno già scrivendo trattati di sociologia ed è un problema che si sta già in qualche modo affrontando. 

 

Smithereens è un bel cortometraggio interpretato alla perfezione da Andrew Scott, ma in fin dei conti poco aggiunge al discorso generale e la sua critica di base non graffia abbastanza. 

___________________________

 

 

 

Rachel, Jack and Ashley Too (Rachel, Jack e Ashley)

 

Di Anne Sewitsky 

Con Miley Cyrus, Angourie Rice, Madison Davenport

 

Una popstar amata e idolatrata soprattutto dal giovane pubblico femminile lancia Ashley Too, una bambola interattiva costruita a sua immagine dotata di intelligenza artificiale: Rachel è una sua grande fan che si è appena trasferita in una nuova città con la sorella più grande e il padre, dopo la scomparsa della mamma, ed Ashley Too diventerà per lei l'unica vera amica e confidente.

 

Fino a quando la verità sulla vera Ashley non verrà a galla, trascinando Rachel e la sorella in un'avventura eroica ed emozionante. 

 

Parere personale: mi ha fatto un po' effetto vedere un episodio del genere targato Black Mirror.  

 

 



Miley Cyrus è in gamba, e tutto il discorso sulla mercificazione del musicista da parte del suo manager, della trasfiguazione in icona che calpesta qualunque velleità artistica personale incastrando la cantante in una gabbia dalla quale è - quasi - impossibile uscire ha ancora più senso pensando alla protagonista, al suo passato nei panni di Hannah Montana e al suo percorso successivo. 

 

Ma Rachel, Jack and Ashley Too è scritto in maniera banale e prevedibile. 
Difficilmente stupisce vedere Rachel che interagisce con la bambola elettronica, così come non sorprende vedere cosa riserva il destino alla vera Ashley manovrata dalla zia manager né soprattutto riserva qualche stupore il finale dell'episodio. 

 

Il problema maggiore del cortometraggio è che secondo me manca completamente il tema principale che è sempre stata la spina dorsale di Black Mirror

La dipendenza dal successo - ecco quindi chiuso il trittico sulla dipendenza a cui mi riferivo nell'introduzione - è al centro dell'episodio, ma la cosa esula dal rapporto uomo-tecnologia.  

 

 

 

 

Il personaggio della zia, così come quello del dottore e del responsabile tecnico che fanno parte dell'entourage della cantante Ashley O, non può immaginare una vita diversa da quella che sta vivendo, sa perfettamente che tutto ciò dipende dal successo delle hit della nipote e la sfrutta per il proprio tornaconto. 

 

L'idea degli ologrammi non è futuristica, esiste già. 

Così come esistono già le intelligenze artificiali con le quali possiamo interagire, a partire da quella di Google e dall'Alexa di Amazon, ed esiste già anche quella che nel corto viene presentata come Ashley Eternal

 

In Giappone esiste dal 2007 Hatsune Miku, un "vocaloid": cantante sintetica che tiene concerti in forma olografica e la cui voce è campionata e sintetizzata da quella di una cantante vera. 

 

 

 

Quel che è peggio, è che la bambola Ashley Too è in realtà uno dei più classici MacGuffin hitchcockiani: serve a portare avanti la sceneggiatura, ma se la togliessimo del tutto dal racconto cambierebbe davvero poco. 

 

Il focus del corto parla di come viene trattata la cantante vera, del suo dramma e della sua voglia di evadere ed evolversi sia umanamente che artisticamente: di Black Mirror in tutto ciò c'è pochino. 

 

E se il finale di Striking Vipers era accomodante, quello di Rachel, Jack and Ashley Too è quanto di più banale abbia mai visto nei - finora - 22 episodi della serie. 

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In conclusione, Black Mirror ha definitivamente preso una strada diversa rispetto a quella che aveva intrapreso all'inizio. 

 

Da lente di ingrandimento distopica che ci metteva in guardia sui nostri comportamenti sbagliati e sulle conseguenze a cui potremmo andare incontro se non dovessimo modificare il rapporto deviato con i device tecnologici, è diventata una polaroid del presente, edulcorata e simpatica.  

 

 



Quell'ansia che si provava durante gli episodi, quella stretta allo stomaco data dal riconoscere noi stessi in quello specchio nero, quella sensazione di vuoto senza speranza al termine della visione che spesso portava a delle riflessioni e a una pausa necessaria prima di vedere l'episodio successivo... non ci sono più. 

 

Non che sia necessariamente un male. 

Black Mirror tecnicamente è ancora una serie di punta e tra quelle disponibili su Netflix è senza dubbio tra le migliori, vanta cast tecnici e artistici di tutto rispetto e in questa occasione sono sicuramente da applaudire le performance di Anthony Mackie, Andrew Scott, Miley Cyrus e della giovane Angourie Rice, che personalmente vedo come una delle star del futuro prossimo. 

 

La dipendenza dai videogiochi per nascondere la ricerca della propria identità di genere, la dipendenza dai social network e il nascondere le proprie mancanze, la dipendenza dalla fama per nascondere la propria inettitudine. 

 

Sono discorsi interessanti che danno luogo a cortometraggi tutto sommato gradevoli e ben realizzati, prodotti televisivi di alta fattura, un qualcosa che nel mare magnum di offerta attualmente disponibile non è mai da disdegnare.

 

Ma non è più Black Mirror

 

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