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Il pubblico odia il genere - Parte I: ...e ha ragione

Il pubblico contemporaneo sembra avere un grosso problema con il cinema di genere, ripudiando tutto ciò che è horror o thriller, associandolo a schematiche formule da luna park da sala. E forse ha ragione. 

Una delle mentalità tutte italiche, una di quelle che ha distrutto in parte il nostro cinema, orbita attorno all’immagine dell’autore cinematografico come a un artista neorealista altolocato, ampiamente immerso in un ideale di Cinema unicamente connesso al dramma, figlio e fautore di una Settima Arte unicamente votata alla ricerca culturalmente elevata.

 

La stessa Italia che ha dimenticato Federico Fellini in favore della febbre berlusconiana da piccolo schermo, producendo drammi casalinghi medio borghesi maldestramente autoriali, un sacco di spocchia e tonnellate di intrattenimento trash, convincendo il pubblico che quello era l’unico modo di fare cinema.

Mai bugia è stata più grande e venefica.

 

La dimostrazione di ciò è il recente risveglio di alcuni autori che, lavorando anche con produzioni internazionali, hanno toccato il pubblico mostrando quanto fosse possibile, in tv come al cinema, portare intrattenimento e segni autoriali senza parlare di corna, drammi domestici insostenibili o servire escalation di volgarità a svilire l’intelligenza dello spettatore.  

 

 



Gli autori cinematografici più interessanti sono nati grazie all’intrattenimento pop, al genere, alla pellicola per il grande pubblico che, grazie alle molteplici influenze, si trasforma anche in capolavoro della Settima Arte. 

 

Guillermo del Toro è chiaramente figlio del cinema di mostri, del fantasy, del fumetto americano tanto quanto del manga giapponese, arrivando a mescolare tutto in un calderone dal quale poi escono opere magistrali quali Il Labirinto del Fauno, l’ottimo Hellboy II: The Golden Army, La Forma dell’Acqua o quel Crimson Peak il cui impatto estetico e di regia è un chiaro atto d’amore al genere, spaziando dalle produzioni Hammer fino a citare l’assassino guantato di Mario Bava e Dario Argento.  

 

 

 

 

Parlando dei Maestri italiani, proprio Mario Bava è stato un maestro del genere, divenendo fonte di ispirazione per registi quali John Landis - che lo ha citato in The Blues BrothersQuentin Tarantino, Ridley Scott - la cui fantascienza ha preso molto da Marione - e molti altri.

 

Bava ha sfogato le proprie capacità tecniche nel cinema di genere, realizzando pellicole come La Maschera del Demonio, Terrore nello Spazio, quel Diabolik incredibilmente carico di intuizioni psichedeliche e pop art clamorosamente moderne per il tempo, e quel postumo Cani Arrabbiati che sembra sia stato fonte d’ispirazione per Le Iene di Tarantino.  

 

Dario Argento, seguendo la scia dell’assassino guantato di Sei Donne per L’assassino di Mario Bava, con L’Uccello dalle piume di Cristallo ha introdotto il suo approccio al giallo basato non tanto su ricerche alla Agatha Christie ma su indizi visivi e sensazioni, intraprendendo un percorso che passando per Profondo Rosso e Suspiria sarebbe poi culminato in Inferno, un film dove la realtà è sempre più relativa.  

 

 

 

 

In America nel frattempo nascevano Stanley Kubrick, David Lynch, John Carpenter, Tobe Hooper, Wes Craven e David Cronenberg, registi diversi tra loro ma accomunati da una voglia di genere rivista attraverso le loro personali idee di storytelling applicate alla Settima Arte.  

 

Il pubblico che affollava i quartieri nel tentativo di entrare a vedere il famigerato Halloween di Carpenter, tanto quanto quello di mezzanotte che riempiva i cinema per guardare l’Eraserhead di Lynch, era nutrito da una new wave di registi e autori che stavano cercando una ripartenza dal classico per distinguersi attraverso una loro, unica, voce e visione.  

 

Il cinema autoriale, quello riconoscibile attraverso la firma dello stesso che lo fa, si configurava nella voce di firme del cinema che, seppur al tempo non proprio premiati dalle critiche (Halloween ad esempio fu maltrattato nonostante il successo al box office) produceva intrattenimento “basso” nella veste di una forma alta.  

 

 

 

 

Lo Shining di Stanley Kubrick, discostandosi dal romanzo di Stephen King e creando futili discordie a riguardo, ha generato tecniche di ripresa, stilemi visivi e rivoluzionato il tema delle case infestate, divenendo forse il miglior film tratto da un’opera di King.  

 

Cronenberg ha addirittura coniato un proprio sottogenere, facendo del body horror il marchio di fabbrica di film quali Il demone sotto la pelle, La Mosca, Videodrome, Il Pasto Nudo o La Zona Morta (altra trasposizione kinghiana), dove le deformità create dall’uomo o per l’uomo sono progenie di un male con il quale l’essere umano non dovrebbe mai arrivare a misurarsi.  

 

Tobe Hooper, Wes Craven e John Carpenter hanno invece sdoganato lo slasher, regalando al cinema americano alcune delle iconografie (h)orrorifiche più importanti di sempre, opere seminali che nel corso degli anni, come nel caso di Craven, sono diventate meta-genere arrivando a parlare dello stesso; il suo Scream ha messo in discussione, decodificato e sbeffeggiato ogni dogma sul cinema horror, mettendo un punto alla discussione in merito all’influenza di questo sulle masse.

 

Poiché il film, come altri mezzi, non genera mostri ma al limite 

“Li rende più creativi”.  

 

 

 

 

David Lynch ha passato gran parte della sua filmografia a reinterpretare il noir, decostruendolo e rimontandolo, contribuendo a creare il genere volgarmente chiamato “mindfuck”, portando una grossa fetta di pubblico a concentrarsi sulla struttura di film quali Strade Perdute (un nastro di Möbius che il Parise vi ha illustrato qui), Mulholland Drive e Inland Empire, dove il noir reso mito da film quali Viale del Tramonto e Il Grande Sonno, nei quali la trama è sconclusionata per definizione, si mescola al racconto per sensazioni al fine di inquietare il pubblico.

 

Lo spettatore nel corso degli anni ha associato al cinema horror, e più in generale a quello di genere, alcune delle firme più interessanti della Storia del Cinema.

 

Qualora non foste convinti, ricordate che lo stesso Steven Spielberg ha esordito con il thriller Duel, tratto da Richard Matheson, è diventato mito globale con Lo Squalo e ha confermato il suo genio con Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo.

 

Se proprio non vi sta bene Spielberg e tutti quelli sopracitati, ricordate che Alfred Hitchcock girava thriller e con Gli Uccelli e Psycho ha terrorizzato l’America; non era un regista che parlava dell’animo umano dilaniato di stampo bergmaniano o della crisi di un nucleo familiare dove i genitori sessantottini sono diventati berlusconiani, generando poi figli frustrati persi tra parti a base di MDMA e mal riposte citazioni pasoliniane.

 

 

 

 

Contestualmente è sempre bene ricordare che, come tutti i movimenti, anche quello del cinema di genere contava la sua enorme fetta di incompetenti dotati di pollice opponibile.

 

Se recentemente Tommy Wiseau è diventato fenomeno pop grazie al passaparola pre e post YouTube, Ed Wood ne è stato corrispettivo per anni, arrivando a consacrazione di massa grazie all’omonimo film di Tim Burton che consiglio assolutamente di recuperare - con un Johnny Depp come non lo si vede più da anni e un Bill Murray in una parte memorabile.  

 

Quando un genere diventa così popolare e apre, ai produttori, la possibilità di registrare incassi enormi a fronte di budget ridicoli - Get Out di Jordan Peele ha incassato 255 milioni di dollari e ne è costato 4,5 - si incappa nel sicuro pericolo di creare i mostri.

 

Difatti alcuni di voi ricorderanno di aver visto al cinema il tanto celebrato The Blair Witch Project.

 

Il film, all’epoca, costò 60mila dollari e ne aveva incassati ben 248 milioni, creando un caso mediatico e sdoganando il genere POV e del found footage che, nato come necessità, ha creato come premesso le mutazioni peggiori del cinema di genere, creando una deriva più terrificante degli horror messi in scena da questo sottogenere. 

 

 

 

 

Ricordo ancora le pubblicità di Paranormal Activity, “il film che ha spaventato Steven Spielberg”, come se il caro genio del cinema americano moderno fosse metro di riferimento del coraggio.

 

Ho ancora impressi nel cervello le reaction, filmate dentro i cinema americani, del pubblico che saltava sulle poltroncine, utilizzate poi nelle campagne pubblicitarie.

 

Allo stesso modo, ricordo un eroe che, a circa 3/4 di film, decise di esplodere in un grido isterico in una sala piena, facendo saltare tutti per aria, per poi esclamare disperato,

“Finalmente è successo qualcosa!”

 

Quel brand ha generato diversi sequel, ispirato un sacco di video virali e rifocillato il movimento di horror basati su jumpscare e nulla cosmico, dove spiritelli dispettosi, grida isteriche e scherzi di coppia si sostituiscono al tentativo di creare tensione, orrore e disgusto.  

 

Questi cineasti - non li chiamerò mai "autori" - non cercano più di destabilizzare o contrariare il pubblico, ma semplicemente di imboccarlo con una serie di spaventi ben calibrati, tanto da essere prevedibili per lo stesso spettatore, portando in sala storie di fantasmi birichini, demoni meritevoli di entrare a far parte dei racconti della seria “il coinquilino di m*rda” e tavolette ouija la cui forza narrativa è sotto la soglia di guardia del mito urbano dello gnomo armato di ascia, sdoganato in televisione dalla trasmissione Mistero

 

 

 

 

Insomma, il cinema horror nel corso degli ultimi decenni è stato visto da Hollywood come economico espediente per incassi fenomenali, arrivando a esercitarsi in disperati tentativi di ricreare un movimento perpetuo di one-shot ma senza l’innesto di nuove idee e visioni, come ha sempre fatto il cinema quando creava i filoni.

 

Dando vita perciò al paradosso del gatto (zombie) imburrato.

 

Questo fenomeno è diventato ancora più ovvio da quando ho iniziato a scrivere per CineFacts.it, trovando molto spesso sotto le recensioni di ottimi film horror pareri scettici ante-visione.

 

Per via della spregiudicata produzione cinematografica di genere, il concetto di horror è stato completamente riscritto.

E per chi compra il biglietto il film dell’orrore è oggi sostanzialmente una baracconata dove personaggi stupidi si imbarcano in azioni completamente insensate, al servizio di trame svogliate dove la soluzione, in fin dei conti, è quasi sempre la medesima.

 

 



Il film horror è diventato la nuova commedia romantica nel momento in cui il pubblico ha imparato a riconoscere e decodificare, per osmosi, la struttura reiterata utilizzata come espediente narrativo di ogni singola produzione.

 

In un panorama di questo tipo, il genere è andato incontro a una svalutazione ancora più sostanziale, allontanandosi nettamente dalla figura mediaticamente conosciuta dell'autore, tenendo il basso in cima ma senza una forma alta a renderlo meritevole di tale posizione.  

 

Così facendo gli autori del cinema di genere diventano mosche bianche e il loro lavoro si perde nel caos di un medium sempre più dominato dalla ripetizione ossessiva di strutture semplici e prive di stimoli.

 

Eppure, se guardiamo nella folla, thriller e horror di rilievo sono ancora presenti nel panorama, ma vengono mal recepiti e male interpretati anche dal pubblico alla ricerca di qualcosa di nuovo, totalmente disabituato a leggere e assorbire una struttura che, per sua natura, vive di schemi liberi e poco si presta alle ossature precostruite.    

 

Invito chiunque a farsi un giro nella filmografia di alcuni degli autori sopra citati.

 

Prendete a esempio un David Cronenberg e recuperate Il Demone Sotto la Pelle, La Mosca, Videodrome, Scanner, Il Pasto Nudo e La Zona Morta e poi ditemi quanto siete grati di aver visto differenti sfumature di un cinema horror reso comune dalla firma di un autore, eppure mai uguale a se stesso.

 

Regalandovi uno spettacolo orrorifico dove l’estro del soggetto vi ha ipnotizzati a seguire storie sempre nuove, avvincenti, dove l’idea non è quella di spaventarvi ma di mettervi a disagio, di raccontare qualcosa fuori da schemi precostruiti.

Si chiama fantasia.  

 

 

 

 

Parte della colpa va condivisa anche da chi, come il sottoscritto, parla di cinema dimenticando di educare lo spettatore, spendendo troppo fiato a parlare di cosa non va piuttosto che indirizzare il lettore verso la fruizione di contenuti di genere validi, provando a spiegare il valore dell’opera.

 

Non credo che in molti abbiano spiegato al pubblico che Black Mirror è, in soldoni, un moderno Ai Confini della Realtà, uno show di racconti dell’orrore che non punta al disgusto del sangue o del torture porn estremo ma al surreale, mirando a destabilizzare le vostre certezze e lasciandovi indifesi.  

 

I cinema si riempiono di film falsamente orrorifici, accomunabili forse a giostre, stanze degli specchi innocue, dove il pubblico sorride per la propria dabbenaggine dopo lo spavento e non arriva mai a provare disgusto, ribrezzo, tensione o nausea per qualcosa che l’autore lo costringe a guardare, ritrovandosi a lanciare popcorn e scrollando distrattamente i feed di Instagram.  

 

Il pubblico ha tutte le ragioni del mondo per pensare che i film di genere siano spazzatura di terza categoria e che produttori e registi li stanno derubando del loro tempo e della loro attenzione. 

 

Ma se una soluzione a tutto ciò esiste, quale potrebbe essere?

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