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Elizabethtown - Recensione: quando Cameron Crowe smontò la rom-com

Nel 2005 Cameron Crowe mi portò a vedere un film che diventò una stramba ossessione

Come alcuni di voi avranno intuito leggendo la mia recensione de La mia vita a Garden State, nutro una certa fascinazione per la ruralità americana.

 

Il mito della torta di mele, dei prati perfetti senza staccionata, delle case in legno, dei ragazzini che corrono per le vie di una provincia sunto e maledizione del sogno americano un po’ infranto ed un po’ eterna promessa, per quel tratto malinconico e riecheggiante di una certa decadenza che accompagna le adolescenze di chi cresce in un posto fatto di idiosincrasie innocenti e spesso sconsiderate.

 

Dove il sesso arriva per prurito e troppo presto e troppo inconsapevole e la droga è una distrazione da infilare tra le birre bevute di straforo sul paraurti di una vecchia macchina parcheggiata malamente in uno store 24/7, illuminati da un lampione dalla luce giallognola, mentre uno spigliato ragazzetto con un cappello troppo largo e dei jeans rovinati salta sul suo skate.  

 

 

 


Perdonate se la mia visione suona davvero anni '90 ma la mia generazione è quella, i racconti e le mitologie sono quelle e nelle orecchie suonavano spesso, mentre guardavo il soffitto della mia cameretta di provincia, gli Smashing Pumpkins e la loro 1979; recentemente è successo ancora mentre leggevo, cullato da un bus troppo affollato, quel Palo Alto di James Franco che è un piccolo gioiello della letteratura contemporanea.  

 

Ora, a rimbalzare tra la nostalgia e la voglia di essere ovunque e in un nessun posto, c’è quella Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town dei Pearl Jam.

 

La voce di Eddie Vedder fa quasi male mentre recita, quasi fosse un canto carmico, “Hearts and thoughts they fade, fade away” e nella mia testa si avvicendano le immagini fuori dal finestrino di Orlando Bloom, protagonista di Elizabethtown, mentre guida languidamente, accompagnato da un cd mix inciso da una Kirsten Dunst mai così manic pixie dream girl, parte di una tradizione di donne al cinema funzionali a risanare la psiche di un uomo reso inutile e derelitto da se stesso e dalla sua incapacità ad affrontare il presente.

 

Dante ci ha basato una commedia, Woody Allen il suo Midnight In Paris (tra gli altri) e Cameron Crowe una carriera - Jerry Maguire ne è forse portabandiera.  

 

Crowe è uno di quei registi atipici, di quelli che, come molti altri prima di lui, nel cinema ci è quasi inciampato, legando sempre il mondo delle storie scritte per lo schermo con la passione viscerale per la musica, che lo ha portato a diventare penna di Rolling Stone, e le sensazioni che questa arriva a suscitare.

 

I fan del gruppo grunge di Seattle, come ogni appassionato di musica, sapranno del contributo del regista nella realizzazione di Pearl Jam Twenty e, più recentemente, invece, alcuni avranno guardato la serie Showtime Roadies, ideata proprio da Crowe.

 

 



Il regista californiano vanta sul suo curriculum alcuni dei film più premiati dal pubblico, cult che hanno generato icone e citazionismi generazionali.

 

Il sopracitato Jerry Maguire è forse l’esempio più eclatante ma si ricordano anche:

Non per soldi… ma per amore (Say Anything 1989), film con John Cusack e quella sua radio sollevata verso il cielo, come una tamarra e dolce serenata (ripresa molteplici volte e recentemente anche in Deadpool e in Ready Player One;

Quasi famosi (Almost Famous 2000), film quasi auto-biografico interconnesso alla passione di Crowe per la musica e che ha stregato il pubblico, ricevendo buone critiche;

Vanilla Sky (2001), film sfortunato e sbadato e qualche altro film, ritorno alla commedia che lo ha reso famigerato, poco brillante e figlio di un certo “non so che” generato proprio a partire dal film in questione: Elizabethtown.  

 

Elizabethtown è un film apparentemente ascrivibile nel cerchio delle rom-com, genere che, come abbiamo visto, Crowe sembra prediligere e con il quale parrebbe trovarsi a proprio agio.

Eppure, cari lettori di Cinefacts.it, vi sfido a guardare Elizabethtown per poi rimanere sul divano qualche minuto, soli o in compagnia, a pensare a cosa avete appena visto.

 

Non commentate immediatamente il film.

Assaggiatelo.

 

Sentitelo scivolare sulla lingua e giù verso lo stomaco per sentire che effetto fa, come si comporta ogni recettore emotivo sulla pelle e sui peli delle braccia e dietro il collo.

Elizabethtown è come quelle labbra che volete tanto baciare e che vi sfiorano mentre siete distratti, lasciandovi un senso di elettrica pulsione carnale e un calcio di fastidio su per la schiena, elettrico e scanzonato; “scanzonato” è proprio una parola che viene usata dallo stesso Orlando Bloom per definire il sorriso del padre defunto. 

 

Cameron Crowe fa qualcosa di controintuitivo, soprattutto per la società americana e ancora di più per il pubblico.

 

Nei primi anni 2000, in un momento particolare dove gli stilemi narrativi iniziavano ad assottigliarsi sempre di più, visto che le commedie romantiche stavano divenendo sempre più inquadrate in tre atti ben riconoscibili anche al pubblico meno attento, Crowe scrive e dirige un film che è Mr Tambourine Man di Bob Dylan e My Father’s Gun di Elton John, entrando nella poetica di canzoni poco pop e dalla fruizione complessa, lenta ed intuitiva, affiancandosi a poesie pop quali It All Work Out di Tom Petty, parte della soundtrack insieme al brano della popstar britannica.

 

Una storia che cerca una complessità assurda nella messa in scena di una sceneggiatura che è canovaccio classico del racconto americano moderno, molto simile al Garden State di Zach Braff, e sembra quasi voler spingere lo spettatore in posti dove questo non vuole andare.

 

 



Il regista americano prende un divo come Orlando Bloom e lo trasforma in protagonista e incarnazione di un racconto che è celebrazione epica ed enfatica, forse anche un po’ stucchevole ma particolareggiata, del fallimento, decostruendo e smitizzando il sogno americano che, nella sua boria e grandezza, crolla come un castello di carte, sfaldandosi con quell’inizio freddo e surreale con un Alec Baldwin che è massimo esponente del sistema sociale del successo americano e, in quanto tale, spietato e folle magnate del capitalismo più frivolo e spregiudicato.

 

Drew, il personaggio interpretato da Bloom, è grigio, spento, così disumanizzato ed esausto della sua missione e, credo, con un che di onore da samurai che lo porta ad un tragicomico tentato seppuku da nevrosi moderna, da arrivare a perdere così tanto e in così poco tempo da diventare immediatamente nevrotico e folle, esponente di un logorio ipertrofico da etichette sociali, che farebbe impazzire chiunque.  

 

Il film da quel punto in poi sembra quasi impazzire insieme al proprio protagonista e, nell’esporre gli stilemi di un genere ben inquadrato, in un qual senso si sfilaccia, portando altri divi di Hollywood in un contesto totalmente inusuale, creando mescolanze.  

 

Troviamo una Jessica Biel, in quel momento star emergente e totale, quasi riluttante all’amore, scontornata da un carattere così assuefatto da quel modello di sogno americano da big company, da rigettare il Bloom deragliato e deragliante dalla matrix del tessuto americano, mentre quest’ultimo diventa quindi sempre più simile allo spettatore nel riflettere il proprio sgomento, facendo del mood narrativo una sorta di paese immaginifico deformato oltre lo specchio del reale che pensavamo fosse l’America del sogno e che invece è una distopia.  

 

 



Allora Drew/Bloom/Noi, nel suo momento di implosione, viene riportato alla realtà dall’unica cosa davvero così potente da smuovere ogni illusione e mettere in pausa qualsiasi altra cosa: la morte.

 

Con la morte del padre è costretto a tornare a casa, alla Elderly Woman di Eddie Vedder, al viaggio guidato da una Kirsten Dunst AKA manic pixie dream girl aka biondo coniglio, cappellaia matta di un mondo da tradurre attraverso foto di momenti scattati attraverso una macchinetta che non esiste e non ha rullino, se non quello della memoria e delle sensazioni che il tempo porta inevitabilmente a rielaborare quando la polaroid, sulla quale imprimiamo il ricordo degli istanti, sbiadisce e il sapore che le immagini lasciano sui recettori mentali si riadattano con le esperienze, la nostalgia, le insicurezze del presente e le ingenuità di quello che è stato.

 

Una Dunst in parte e inedita, trasognata e trasognante, dalla quale il protagonista prende e lascia e noi con lui, facendone personaggio principale e principe, salvezza in un mondo incomprensibile e Lost in (an unnecessary) Translation che, invece, si rivela salvifica.  

 

E poi arriva la mamma, la donna lasciata sola da un compagno che era mito vivente di una comunità che sembra conoscere se stessa come un organismo perfettamente bilanciato dalla natura e che nel salutare un suo componente sembra accogliere quello perduto con un senso presente e assente di riluttanza, celebrando tutto quello che è stato ed assistendo a bocca aperta alla danza di una Susan Sarandon vedova sopra le righe, proprio come tutto il contesto, stramba, folle, piena di una grazia inconsueta e scanzonata come il senso languido e triste che pervade l’intero film.  

 

 



Elizabethtown è un film impossibile da catalogare e definire, lo ripeto e nel ripeterlo rinnovo la mia sfida, nei vostri confronti.

 

Cameron Crowe ha preso dei divi e li ha messi in una situazione impalpabile eppure familiare, costruendo una commedia romantica che non è rassicurante e non sempre solleva sentimenti e sensazioni piacevoli, dove l’amore è presente ma è complesso, si stratifica tra la disperazione della morte, della solitudine, della perdita del senso, delle persone e delle cose, passa per la celebrazione del fallimento e dell’amore per la rinascita e per quegli esseri meravigliosi che sono le donne, capaci di una visione e di una forza a noi estranea e della quale spesso non siamo capaci.

 

Un film che siede incostante e impaziente accanto alla definizione di “melanconia”, entrando nel corpo dello spettatore e sedimentando per diverso tempo, esplodendo nel sangue con le sue alchimie e generando una reazione che diventa una pericolosa overdose di sensazioni e feels, per alcuni piacevole e per altri del tutto sgradita.  

 

Elizabethtown è un film impossibile da catalogare e definire, scanzonato e per certi versi senza coda e con un capo che non è tale ma quasi un gigantesco pretesto per tendere un parallelo tra il road movie che, a un certo punto, diventa il film, nonché quello che lo spettatore compie nell’attraversare le diverse fasi emozionali che la pellicola impone.  

 

Crowe realizza un film che, personalmente, non riesco a smontare, un oggetto misterioso che per qualche motivo, per intuizione capisco essere rotto, forse volutamente danneggiato o forse no, eppure affascinante e che, per via della sua capacità di rimanere dentro, mi ha portato a rivedere il film più e più volte.  

 

Elizabethtown è un film impossibile da catalogare e definire, perché ne ho un po’ paura.

 

La sua struttura così emozionalmente complessa, una sorta di pillola che è causa e palliativo per una certa depressione e ansia sociale, sembra davvero proporre e riflettere le emozioni della sua influenza musicale, divenendo messa in scena di quel mix realizzato da Claire - il personaggio interpretato dalla Dunst - che è anche colonna sonora fittizia e reale del film stesso.  

 

 



Se stavate cercando in questa recensione un parere su Elizabethtown, una recensione, una disamina, una valutazione oggettiva di quello che è, credo che siate rimasti delusi.

 

Le budella, a ogni visione, mi hanno detto che qualcosa nel film di Crowe è tremendamente sbagliato, eppure quelle stesse viscere si sono fatte ingannare da un non so che, riportandomi a guardare il film, lasciandomi preda delle sensazioni descritte da Anthony Kiedis nella recente Encore,

“I wanna listen to the radio

Driving down Calexico Highway”.

 

Quello che si avverte sul petto, dopo la visione del film, è uno strambo peso, una voglia di scrollarsi di dosso qualcosa, di correre, di mollare qualsiasi cosa si abbia tra le mani per fare altro e, in tutta onestà, a volte le sensazioni sono ben altre e si avvicinano allo sgomento, ad un senso di incompiuto.  

 

Cameron Crowe con Elizabethtown ha girato il suo film più sperimentale, anche forse non lo capirò mai davvero con certezza, basando su un canovaccio classico e un genere a lui familiare una sorta di antitesi a Jerry Maguire, come se si fosse pentito di quel film divenuto così pop e riflesso di un certo sogno del pubblico americano della nuova generazione, cercando di dire tutto il contrario, usando la musica come presenza e fonte d’ispirazione sensoriale per narrare la storia.

 

Elizabethtown prende dei divi e li trasforma in qualcosa di completamente alieno al pubblico, prende un tema moderno e lo snatura in un viaggio assurdo, rende tutto più complicato e meno fruibile, provando a decostruire e ridare forma alla moderna commedia romantica che lui stesso ha contribuito a mitizzare girando Non per soldi… ma per amore.  

 

Non ho idea di cosa non funzioni in questo film, non so se quanto rimanga alla fine di Elizabethtown sia positivo o negativo e credo che in buona sostanza sia una sfida da lanciare al pubblico, qualcosa da lasciare interamente allo spettatore e alla sua capacità e voglia di confrontarsi con uno spaccato di una società per noi europei un po’ aliena.

 

Quel che so per certo è che il fatto che il film rimanga, anche solo come enigma, è certamente un punto a favore del lavoro del regista.

 

L’altra certezza risiede nell'irrefrenabile bisogno di parlare con Crowe per capire cosa volesse fare ma, soprattutto: guardate il film, pensateci e fatemi sapere.

 

E non dite che non vi avevo avvisato.

 

Chi lo ha scritto

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3 commenti

Elena, anche tu dovrai tornare qui a dirci cosa ti ha lasciato questo film ad una seconda visione.
Guardalo con una nuova consapevolezza, cerca di percepire i messaggi dietro la struttura, destrutturata, dietro questa rom-com/road movie/dramma e facci sapere cosa ti ha lasciato e, soprattutto, se lo hai capito, cos'è quella cosa guasta che non permette al film di potersi dire riuscito. Perchè, in fondo, come dico nell'articolo ... io non ne sono poi così certo.

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Nulla da aggiungere, caro Marco.
Anzi, hai detto cose che io avevo tralasciato.
Crowe ha rischiato tutto con un film che ha provato a dare una spinta diversa alla commedia ed è stato abbastanza punito.

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Antonella, tu sei il sale della mia terra cinefila. Guardalo aspettandoti di dover poi tornare da queste parti, per farci sapere cosa ti ha detto il film e cosa ti ha lasciato questa rom-com smontata e rimontata.

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