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Yes - Recensione: la dissonanza cognitiva degli israeliani - Roma 2025

Il regista israeliano Nadav Lapid mette in scena una critica abrasiva alla decadenza morale di Israele, in un'opera provocatoria che urla di dolore per provare a sovrastare il silenzio della propria nazione sugli orrori commessi a Gaza

Titolo originale: Ken
Genere: Drammatico 
Regia: Nadav Lapid
Sceneggiatura: Nadav Lapid
Cast: Ariel Bronz, Efrat Dor, Naama Preis
Uscita Italia: TBA
Durata: 150 minuti
Paese: Cipro, Francia, Germania, Israele 
Distribuzione Italia: TBA

Yes del regista israeliano Nadav Lapid è stato presentato alla XX edizione della Festa del Cinema di Roma nella sezione Best of 2025, dopo la partecipazione alla Quinzaine des Cinéastes del Festival di Cannes; la distribuzione nelle sale italiane non è ancora stata annunciata. 

 

Già con Synonymes, vincitore dell'Orso d'oro al Festival di Berlino 2019, Lapid aveva affrontato il tema del rifiuto della propria nazionalità, ma con Yes arriva al suo punto più estremo. 

Il film è ambientato dopo la brutale risposta di Israele all'attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, anche se il regista lo aveva già ideato prima di quella data, in una Tel Aviv sfacciata nell'adesione - dire sì (Yes) - al progetto di annientamento del popolo palestinese della Striscia di Gaza.

 

Y. (Ariel Bronz), pianista jazz, e sua moglie Jasmin (Efrat Dor), ballerina, partecipano alle feste mondane mettendo la loro arte al servizio dell'ambiente corrotto degli esponenti del potere militare e politico israeliano, si vendono come giullari di corte eccentrici e volgari, offrendo i loro corpi mercificati sull'altare del dio denaro, mentre la musica scorre a un volume così alto da rendere inascoltabile qualsiasi tentennamento di coscienza. 

 

[Trailer ufficiale di Yes]

 

 

Come realizzare un film che rappresenti, proprio mentre accade, il trauma di un orrore indicibile di cui la tua patria si rende responsabile? 

 

Con Yes Nadav Lapid risponde a questo interrogativo stravolgendo gli stilemi di rappresentazione classici, insufficienti a restituire la portata esistenziale della colpa.

La messa in scena allora esplode nel suono e nell'immagine, frantumando l'ordine della staticità in movimenti di camera nervosi, lampi veloci sovrastati da un sonoro che pervade tutto il primo capitolo del film, intitolato "La bella vita".

 

Yes è uno spasmo incontrollato, il moto di rabbia di chi tenta di espellere un corpo estraneo da sé, rivelando la perversione del machismo patriottico del governo israeliano, lo scandalo di un dilemma morale ignorato o, addirittura, mai posto, sostituito dal sostegno incondizionato a un sionismo messianico che si racconta di avere la Storia - la Shoah è trauma e legittimazione insieme - come scorta di fronte agli occhi del mondo, giustificazione ultima, parossistica, della possibilità di mettere in atto un genocidio senza soluzione di continuità.

 

Nadav Lapid imprime in Yes una regia autoriale marcata, che trascina lo spettatore in un discorso simbolico che si fa solido nelle viscere, in un'allucinazione sontuosa di saliva e meschinità, di servilismo viscido e disturbante, reso insostenibile dalle scene allungate oltre il tempo massimo di sopportazione. 

 

 

[Efrat Dor, Idit Teperson (nel ruolo di una ricca signora) e Ariel Bronz in una scena di Yes] 

 

 

Y. e Jasmin però non sono completamente immuni a ciò che accade nella Striscia di Gaza: mentre si stordiscono ballando tra le mura di casa, coinvolgendo anche il loro figlio piccolo, vengono distratti dalle notifiche che piombano sui loro smartphone con le notizie dei morti e dei massacri sempre più cruenti contro i civili palestinesi.

 

L'alternanza tra i pezzi pop ballati dai protagonisti e il frastuono degli edifici che crollano sotto le bombe è forse tra le sequenze più riuscite di Yes, perché confronta plasticamente la negazione della realtà da un lato e la realtà incontrovertibile dall'altro, in un parallelismo che usa lo sfarzo sonoro di due cariche opposte per testimoniare il bias cognitivo di un'intera nazione.

La coppia di artisti vive in simbiosi, complice di una sorta di segreto silenzioso condiviso, un dubbio sotterraneo che talvolta si insinua tra le fessure della loro corruzione, slatentizzando un senso di colpa nascosto dietro a un atteggiamento senza scrupoli. La consonanza di questo sentire regge fino a quando Y. viene incaricato di comporre la musica per un nuovo inno nazionale basato su testi che invocano lo sterminio totale dei palestinesi, che sarà cantato da un gruppo di bambini - a riprova dell'approccio ricattatorio degli apparati governativi. La canzone è un classico del repertorio israeliano, che celebra la fratellanza degli uomini durante la guerra d'indipendenza, adattato, nella finzione del film, a una poesia dello scrittore israeliano Haïm Gouri.

 

Di nuovo, Yes sceglie la musica come linguaggio privilegiato per decostruire la propaganda di Israele, nuda nella sua oscenità.

 

È stato lo stesso regista Nadav Lapidin diverse interviste ad aver definito Yes come "una tragedia musicale".

Dopo quella proposta, Y. dovrà fare i conti con le implicazioni morali della propria arte a un livello più profondo, intraprendendo "Il percorso", secondo capitolo di Yes, che lo conduce a scavare nelle sabbie mobili del suo conflitto interiore.

 

 

[Ariel Bronz a pochi chilometri di distanza dalla Striscia di Gaza, distrutta dai bombardamenti israeliani, in una scena di Yes] 

 

 

Y. parte per incontrare Leah (Naama Preis), una vecchia amante che non ha mai dimenticato.

 

Nel loro viaggio in macchina verso il confine, Leah racconta tutto d'un fiato le storie tragiche degli israeliani rimasti vittima dell'assalto dei miliziani di Hamas ai kibbutz e al Nova Festival, come una litania, un pianto che non assolve Israele, ma allarga la ferita dei popoli, schiacciati dal giogo millenario degli interessi dei potenti.

Y. scende a patti con la propria ipocrisia, ma anche con l'impossibilità di ribellarsi a un sistema enormemente più stratificato: compone l'inno che celebra lo sterminio di Gaza e accetta di consegnare al figlio un mondo in cui, come dice lui stesso, “la sottomissione è felicità”

 

Yes è un film coraggioso perché proviene dalla voce di un israeliano, Nadav Lapid, che vede marcire la sua stessa radice originaria. Una critica corrosiva dall'interno, una denuncia non solo alla violenza ideologica della classe dirigente del suo paese, ma anche alla prostituzione dell'arte, che ha tradito il suo ruolo di resistenza e risveglio etico. 

 

L'ultimo capitolo di Yes si intitola, appunto, "La notte", metafora del buio più disperato, della coscienza collettiva che si addormenta per sempre.

___

 

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