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Le città di pianura - Intervista a Francesco Sossai, Filippo Scotti e Pierpaolo Capovilla

Il film di Francesco Sossai è un road movie tra le strade di un Veneto di negozi chiusi e bar sempre aperti: ne abbiamo parlato insieme al regista e a due dei protagonisti

Le città di pianura è il secondo lungometraggio del regista bellunese Francesco Sossai presentato in concorso nella sezione Un Certain Regard del 78° Festival di Cannes.

 

Road movie poetico e toccante, Le città di pianura racconta il Veneto e Venezia dal punto di vista di due alcolisti cinquantenni, Carlobianchi (Sergio Romano, visto di recente ne La valle dei sorrisi di Paolo Strippoli) e Doriano (Pierpaolo Capovilla). 

L'incontro con il giovane studente di architettura Giulio (Filippo Scotti), ossessionato da Carlo Scarpa e dalla Tomba Brion, darà l'inizio a una lunga ricerca dell'ultimo bicchiere.

 

Le città di pianura è distribuito nelle sale da Lucky Red, che ci ha concesso l'opportunità di intervistare il regista Francesco Sossai e i protagonisti Filippo Scotti (È stata la mano di Dio, L'orto americano) e Pierpaolo Capovilla, frontman de Il Teatro degli Orrori, qui nell'inedita veste di attore. 

 

[Il trailer di Le città di pianura]Le città di pianura

 

 

Marco Lovisato 

Buongiorno a tutti e i miei più sinceri complimenti per Le città di pianura, un film che racconta un po' della tua terra, Francesco, e della città in cui vivi, Pierpaolo, ovvero Venezia.

 

Pierpaolo Capovilla 

Vivere a Venezia è un po' come vivere dentro a un cadavere. È una città in decomposizione turistica.

 

ML

Con questo commento stai anticipando una domanda che ti avrei fatto più avanti, ma intanto volevo chiedere a Francesco: so che l'idea alla base de Le città di pianura è nata, un po' come le grandi imprese che il film narra, da una sbronza.

Vuoi raccontarci come è nata l'urgenza di mettere in immagini questo soggetto? So che, ad esempio, il tutto è nato dall'incontro con un ragazzo che sarebbe poi diventato Giulio nel film.

 

Francesco Sossai

Ero andato a Venezia con un amico partendo da Belluno e abbiamo conosciuto questo studente di architettura che veniva dall'Irpinia e l'incontro mi ha sconvolto, perché eravamo in due stadi completamente diversi della vita, noi in una fase di disillusione post-universitaria, non ancora con dei lavori fissi e sempre precari, mentre invece lui studiava e aveva questo idealismo molto bello, anche se però rimaneva molto inchiodato su tante cose, senza sapere come andare avanti.

È stata questa serata passata insieme che mi ha dato il pretesto per raccontare la storia - in fondo banale - de Le città di pianura, ossia l'incontro tra persone diverse.

 

Dall'altra parte però c'entra anche quello che diceva Pierpaolo a proposito del turismo.

La nostra regione, il Veneto, si è ritrovata a vivere di turismo, dopo un passato di ricchezza industriale che è finito nel 2008, e c'è questa immagine che ci propinano in continuazione che è Piazza San Marco a Venezia con le Dolomiti dietro.

Allora mi sono detto "questo non è il Veneto che conosco".

Ho pensato di fare una controimmagine dove il paesaggio fosse raccontato da dentro e non da fuori, perché secondo me è importante non cedere. Non so se avete notato anche voi, in questo tempo, come la narrazione della pubblicità, del turismo, della politica infettano il parlato comune.

E più vedi quelle immagini, più senti di vivere nel mondo che rappresentano.

 

È una forma di ipnosi troppo grande e quindi volevo fare un film che fosse un contraltare a quella regione che ci viene raccontata dalla pubblicità.

 

 

[Pierpaolo Capovilla, Filippo Scotti e Sergio Romano ne Le città di pianura] Le città di pianura

 

ML 

Prima, a proposito del passaggio del Veneto da regione industriale a meta turistica, hai chiamato in causa il passato e una cosa che ho notato ne Le città di pianura è come viene affrontato il tema della memoria.

Perché da una parte c'è il ricordo delle "imprese" passate e affrontate con gli amici, quasi dal respiro epico e romanzato, mentre invece banalmente si fa fatica a ricordare cosa si è detto la sera prima.

Trovo molto bello questo contrasto tra memoria a lungo e a breve termine.

 

Francesco Sossai 

Ho già realizzato in passato un corto sul tema del ricordo, Il compleanno di Enrico, che era appunto il ricordo di un compleanno di un mio amico.

In quell'occasione mi ero ripromesso di filmare fedelmente quello che ricordavo di quella notte, perché mi avrebbe sicuramente restituito la verità di ciò che era successo e mi avrebbe aiutato a capire. 

Ma subito dopo averlo montato mi sono detto "ma non c'è niente di vero qua dentro".

Credo che il ricordo sia un'invenzione pura, è già racconto. E mi piaceva l'idea di provare a fare un film su questo aspetto, su come la memoria diventi identità ma di fatto è finzione e penso che ne Le città di pianura venga sviscerato bene questo elemento.

 

C'è poi un ulteriore aspetto che mi interessava esplorare ne Le città di pianura, ossia il fatto che sembra che non riusciamo a crearci nuove memorie, quando invece le memorie fino a un determinato punto storico sono ormai fisse per noi.

È un po' come vivere dentro a Memento, da un certo punto di vista. È come se la Storia esistesse solo fino a un certo punto e ora facciamo fatica ad assimilare i nuovi eventi e a inserirli in un continuo storico.

Volevo che Le città di pianura avesse un po' la forma di questo flusso indefinito, da cui però fare emergere questi ricordi così potenti da essere immortalati.

Quegli stessi ricordi vengono poi indagati, rivisitati varie volte in modi diversi, quindi appunto diventano finzione anche essi.

 

ML

Vorrei da voi anche una riflessione sul tema del dislocamento, soprattutto in relazione all'architettura.

L'architettura è un tema forte ne Le città di pianura, con questo mito di Carlo Scarpa e della Tomba Brion. L'architettura prevede stabilità in un luogo, la realizzazione di un progetto che si radica sul territorio.

Ne Le città di pianura, invece, i personaggi si spostano continuamente, Carlobianchi e Doriano alla ricerca di un nuovo bicchiere o Giulio che ogni giorno deve farsi il tragitto da Mestre a Venezia.

Questo dislocamento viene rappresentato ne Le città di pianura nella forma del road movie.

 

Francesco Sossai

È un po' quello che dice il personaggio del Conte, sul fatto che vengono create infrastrutture in continuazione per spostarsi da un luogo all'altro, ma poi non c'è più nessun luogo dove andare.

In realtà però Le città di pianura approda a un luogo, che è appunto la Tomba Brion, e approda anche a una forma. Perché lì, in quel momento, dopo un film tutto giocato sul movimento, quello che viene ripreso è il tempo che scorre dentro quel luogo.

 

Nelle altre scene non c'è mai il tempo che scorre, c'è sempre e solo un andare e un muoversi in continuazione.

 

 

[I protagonisti de Le città di pianura in visita alla Tomba Brion, memoriale progettato da Carlo Scarpa situato a San Vito di Antivole, in provincia di Treviso]

 

ML

Nel road movie classico, come quelli hollywoodiani degli anni '70, la meta diventa un po' un pretesto per creare un racconto intorno a quello che è il percorso.

A tal proposito ne Le città di pianura c'è un altro tipo di percorso, che è quello della costruzione di un rapporto tra i protagonisti: da una parte Doriano e Carlobianchi, che si conoscono da una vita, e dall'altra Giulio, questo studente un po' insicuro che viene incluso nel loro mondo e che, a sua volta, include i due compagni di avventura nel suo.

Trovo che Le città di pianura riesca a restituire una sensazione genuina di uscita tra amici e a dare l'idea di assistere a un'amicizia che si costruisce davanti agli occhi dello spettatore: come avete fatto a ricreare questa alchimia?

Vi siete ritrovati anche tra voi, dopo la fine delle riprese, a scoprire di avere affinità?

 

Pierpaolo Capovilla

Tutto quello che hai detto. Siamo diventati buoni amici, tutti quanti.

 

Filippo Scotti

Forse direi che non è successo dopo, ma già durante le riprese. È stata proprio una bella sinergia, un bell’incontro. Si è creato - e parlo anche a nome di Sergio Romano - un certo tipo di ascolto: dove non arrivava Pierpaolo, arrivava Sergio, e viceversa.

Nel quotidiano del set, così come nella storia stessa de Le città di pianura, Giulio, il mio personaggio, abitato da questo demone del sapere e da una grande voglia di scoperta, ha finalmente la possibilità di fare quel passo in più e dire: "Cavolo, forse mi tocca seguire loro."

 

Anche perché nel film si vede che all’inizio Giulio dice spesso di no, ma io credo che chi vuole veramente evitare una situazione, riesca a evitarla. Invece, se si resta in quell’isola dell’indecisione, forse ci si sbilancia di più verso l’accogliere l’incidente, l’imprevisto.

 

 

[Filippo Scotti in una scena de Le città di pianura] Le città di pianura

 

ML

Le città di pianura è un film di dialoghi, ma c’è anche tutta una dimensione di non detto. Gran parte della comunicazione tra i vostri personaggi - dove nasce l’amicizia e questo terreno d’incontro - si gioca proprio sul fare l’opposto.

È un po’ il richiamo dell’ultimo bicchiere, di questa meta.

 

Francesco Sossai

Sono successe due cose interessanti, secondo me: la prima è il fatto che Pierpaolo e Sergio sono riusciti a creare veramente l'impressione di un'amicizia decennale, che era la sfida che mi spaventava di più del film.

 

Pierpaolo Capovilla

Ti preoccupava, vero?

 

Francesco Sossai

Ero arrivato a pensare "Magari devo dare il ruolo a due amici autentici".

 

Pierpaolo Capovilla

Ma questo è anche il motivo per cui ci hai fatto sperimentare, perché abbiamo sperimentato molto.

Non c'entra niente con il Metodo Stanislavskij, ma ci sono stati degli incontri prima delle riprese quasi psicodinamici, nel senso psicoanalitico proprio. Io e Sergio ci guardavamo negli occhi per minuti senza battere ciglio, oppure uno di noi doveva dire una cosa che il proprio interlocutore doveva ripetere, fare una domanda alla quale il tuo interlocutore doveva rispondere con un'altra che avesse affinità con la precedente.

Andavamo avanti così per ore. Quanto siamo andati avanti? Dieci giorni, credo. 

 

Francesco Sossai

No, abbiamo fatto anche di più. Due settimane piene, quasi tre.

 

Pierpaolo Capovilla

Quindi ci ha proprio obbligati Francesco, ci ha indotti, condotti e portati all'amicizia. E amicizia è stata, e questa è la cosa bella.

Abbiamo litigato una volta io e Sergio, ma perché stavo rompendo i coglioni io, perché quando vado in entusiasmo divento un rompiballe. E lui era stanco.

Ma è stato bellissimo come ci siamo scusati a vicenda. È stato proprio bello.

 

Francesco Sossai 

È uno dei momenti più belli che io ricordi, quando ci siamo messi là in silenzio in mezzo all'Autogrill, mentre tutti montavano e siamo stati mezz'ora in silenzio a guardarci per poi alla fine chiederci scusa.

C'è poi stato un momento durante le riprese de Le città di pianura in cui è accaduto qualcosa che ha superato le mie previsioni, che è il momento nel film in cui Carlobianchi e Doriano si svegliano la mattina dopo la sbronza. C'è Sergio che prepara il caffè e Pierpaolo che lo saluta.

In quel momento è impossibile pensare che questi due attori non sono amici da una vita.

 

Quell'elemento del non detto di cui mi chiedevi prima è una cosa che io e il co-sceneggiatore Adriano Candiago ci diciamo sempre, che ci serve anche un po' come regola per scrivere.

Io da quando sono piccolo ho l'ossessione di scrivere le cose che sento, ad esempio mi appuntavo i dialoghi che sentivo in TV. Mi ricordo la prima cosa che ho scritto: a Blob avevano mostrato l'intervista a una signora che aveva trovato il corpo di Pier Paolo Pasolini e raccontava di come le era sembrato un sacchetto della spazzatura.

Un'immagine molto forte. 

 

Trovo che la cosa incredibile della lingua parlata è che non ha senso. La gente non dice cose, ma prova a dire delle cose.

È un costante tentativo di dire qualcosa. E quindi ci siamo dati questa regola di scrivere così anche i nostri dialoghi: ogni personaggio tenta di dire qualcosa, ma semplicemente gira intorno al significato, come sto facendo anche io adesso, a quello che vuol dire, ma nondimeno vi ci si aggrappa. 

 

Sono molto soddisfatto di come questo sia restituito ne Le città di pianura, perché mi sembra che ognuno dei personaggi tenta di dire qualcosa, ma sono tentativi, a volte anche in forma quasi di monologo.

Parlano di cose che evidentemente hanno studiato e sanno, però anche lì c'è una ricerca del significato. Perché non sappiamo mai come dire le cose. 

 

ML

Stavo pensando a tutte le scene de Le città di pianura in cui il rumore copre i dialoghi, in cui non si sente quello che i personaggi si dicono - che è un po' quello che sta succedendo adesso con tutti questi tram che passano mentre parliamo.

 

Francesco Sossai

Mi sembra molto bello perché nella vita arrivi sempre sulla soglia di capire qualcosa, ma non arrivi mai a capire veramente.

E poi volevo che Le città di pianura fosse un film capace di parlare al pubblico guardandolo negli occhi, senza che io mi mettessi in cattedra a pontificare, ma semplicemente restituire quello che è stato il mio vissuto, dando la possibilità allo spettatore di aprirsi e aggiungere quella che invece è stata la sua esperienza.

Questo pontificare dall'alto è una cosa che mi ha rotto i coglioni della nostra epoca, sinceramente.

 

Mi piace che in una delle sequenze iniziali de Le città di pianura il presidente della fabbrica arriva in elicottero come se fosse sceso a enunciare chissà quale gran verità, ma alla fine il rumore intorno non te la fa sentire. Mi sembra più onesto, ecco. 

 

ML 

Un momento che sembra uscito dal Cinema di Luis Buñuel.

 

Pierpaolo Capovilla

Tra i miei registi preferiti!

 

Francesco Sossai 

O come in Intrigo internazionale di Alfred Hitchcock. Quando viene rivelata l'identità di Kaplan non si capisce a causa del rumore di un elicottero.

 

ML

A proposito di rumore e suono, ne Le città di pianura le musiche di Kranomi sembrano inseparabili dal film.

Mi hanno ricordato certe colonne sonore di Jim Jarmusch, con quegli accordi di chitarra un po’ sparpagliati che però, invece di limitarsi ad accompagnare il racconto, finiscono per costruire una vera e propria architettura intorno ai personaggi: come siete arrivati a questa scelta della colonna sonora? 

 

Francesco Sossai

Una cosa che volevo sottolineare è come per me anche le voci degli attori diventano parte della colonna sonora.

Se pensi a Le città di pianura come a un’orchestra, i tre strumenti principali sono ovviamente le loro voci. E con Pierpaolo c’è una componente ancora più musicale, nella sua prosodia. 

 

Mi piaceva l’idea di fare un film che attingesse a un genere ampio.

Come il road movie, per esempio, che Krano affronta richiamandosi alla musica folk americana, però cantata in dialetto veneto. Ma il modo in cui il dialetto veneto è usato non è identitario. Non è la musica da sagra del gruppo di paese, è qualcosa che trascende, che entra e scava nel suono della lingua veneta.

Questa idea mi piaceva perché mi sembrava che anche Le città di pianura fosse così, senza un carattere identitario o politico, ma piuttosto un canto dell’essere veneti, dell’essere stati lanciati su questo pezzetto di terra. Per questo, non volendo una colonna sonora classica, ho dato a Krano solo la sceneggiatura e lui ha composto tutto prima.

Alcune scene, infatti, le ho girate con la sua musica già in cuffia. 

 

ML

Filippo, dopo il tuo lavoro ne L'orto americano, ti ritroviamo anche ne Le città di pianura in una regione diversa.

Ogni volta è come se i tuoi personaggi scoprissero una nuova zona d’Italia. Mi piace che nel tuo lavoro tu sia molto ‘giramondo’: questo continuo viaggio dentro l’Italia e le sue culture è qualcosa che ti stimola?

Come lo riesci a incorporare nel tuo lavoro?

 

Filippo Scotti

Penso che il viaggio non vada inteso come un viaggio da turista, ma come l’arrivare in un luogo sconosciuto e poterlo "camminare". È quello che mi interessa di più.

Quando mi sono trovato con Pupi Avati nel ferrarese, in un hotel verso Comacchio immerso nella nebbia, mi sono detto "Passo due settimane qui".

E sai cosa? Ho pensato che sì, è una cosa che mi piacerebbe continuare a fare, una cosa che cerco nella mia vita e che mi stimola tantissimo.

Proprio perché mi dà la possibilità di sentirmi solo, di sentirmi fuori posto.

 

La mia indole - un po’ come quella di Giulio - è quella di cercare il controllo su tutto, o almeno nelle cose sulle quali posso esercitarlo.

Però credo che nella perdita di controllo ci sia una magia: a un certo punto devi "sopravvivere" e quindi non puoi più pensare alle tue cazzate, non puoi pensare al giudizio nei tuoi confronti. Lavorando con Francesco il nostro obiettivo era proprio spegnere quella voce interiore che ti dice "questa battuta la devi dire così, scritta in quel modo".

Noi invece cercavamo semplicemente di dire qualcosa, e quando tenti di dire qualcosa ti appoggi all’altro: diventa un lavoro di fortissima relazione. 

 

Credo che questa relazione e questo ascolto non siano associabili solo a una persona fisica, ma anche - e forse soprattutto - a un luogo, quando riconosciuto e quando, anche, temuto.

Mi fa piacere che tu mi abbia fatto questa domanda, perché l’idea di spostarmi mi interessa forse più di qualsiasi altra cosa.

 

Anche perché questo mi aiuta a riconoscere da dove vengo, mi aiuta a rimettere a fuoco quel posto che magari ho sempre giudicato, positivamente o negativamente.

 

 

[Filippo Scotti ne Le città di pianura] Le città di pianura

 

Francesco Sossai 

L’altra sera stavo rivedendo La grande guerra di Mario Monicelli e mi è venuto da pensare a quanto sia bello che Filippo abbia quell’indole di un certo Cinema italiano ‘regionale’: attori che si spostavano da una regione all’altra e raccontavano i diversi aspetti del Paese.

 

ML

A proposito di storia e tradizione, ne Le città di pianura c'è una sovrapposizione tra luoghi reali, immaginari e luoghi che hai resuscitato, come il bar I Biliardi a Venezia.

Luoghi della memoria, luoghi fantasma.

Come vedete la vostra regione, la vostra città, in questo momento? Così do anche a te, Pierpaolo, l’occasione di riprendere quello che stavi iniziando a dire prima…

 

Pierpaolo Capovilla

Anche il bar Profondo Rosso, che si vede nel film, ha chiuso.

Perché il proprietario, un mio caro amico, non riusciva più a gestirlo. Pensate che ho lavorato a Profondo Rosso un mese intero, tutto settembre, prima di iniziare le riprese de Le città di pianura, dalle 8 del mattino alle 5 del pomeriggio.

Una volta andai da Fifo, il proprietario, e gli dissi "quanto mi piacerebbe lavorare qua, non avresti mica bisogno di aiuto?" Ero ubriachissimo.

L'ultimo di agosto mi telefona a mezzanotte, vedo il numero sul telefono e scopro che mi aveva preso sul serio! Ho iniziato la mattina dopo.

 

Il popolo veneziano è gente molto franca, sincera, autentica ma sa farsi voler bene.

Siamo rimasti in 48.600 cittadini veneziani, a fronte di 20 milioni di visitatori all'anno. Venezia è in uno stato comatoso: il 75% dell’attività produttiva a Venezia - e parlo di tutte le isole - è dedicata al turismo.

C’è un problema gravissimo legato alla proprietà degli appartamenti e alla rendita: chiunque possieda un immobile può trasformarlo in B&B o affittarlo, e se hai un ristorante puoi tranquillamente chiedere 20.000 euro al mese per i muri.

Questo funziona perché i turisti vengono per spendere, ma la gente che ci vive non può permetterselo. Di conseguenza, il tessuto sociale delle isole veneziane è oggi del tutto disgregato.

 

Io vivo a Venezia da 37 anni: 30 anni fa non era così.

Gli studenti non trovano un appartamento, neanche a Mestre, devono andare a Marghera o a Spinea.

Quando c’erano gli studenti - stiamo parlando di qualche decina di migliaia - la città era diversa: più vivace, più volitiva, più interessante. I giovani portavano con sé la voglia di cambiare il mondo. Tutto questo oggi è svanito.

C'è un bellissimo libro su questo argomento: Se Venezia muore di Salvatore Settis.

 

Francesco Sossai

Devo dire che anche io sono stato molto pessimista. Però, facendo Le città di pianura e abbracciando una visione come quella di Giulio, che prova sempre a guardare un po' oltre, mi sono convinto che il destino sia nelle nostre mani, e in parte anche il destino delle nostra città. 

Recentemente mi sono trasferito a Venezia con la mia compagna. All’inizio avevo paura, soprattutto per il turismo e per come la città era cambiata, però ho pensato che se alla fine nessuno torna ad abitare questa città, allora il problema è destinato a rimanere tale.

 

Magari c’è qualcosa di nuovo che non vediamo ancora. Anche considerando, come dice Pierpaolo, che questo sistema si avvicina a uno shock sistemico.

Perché quando non puoi più pagare nulla, neanche un fritto, quando non ti puoi permettere nulla, arriva un momento in cui il tessuto economico cede, come nel 2008.

E quando arriverà lo shock del sistema, dobbiamo essere pronti con una proposta nuova e non farci trovare impreparati. Nessuno era pronto alla caduta del Capitale.

 

Pierpaolo Capovilla 

Come dice Mark Fisher, è più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo. 

 

Noi veneziani il sindaco Luigi Brugnaro non lo abbiamo votato. Siccome Venezia è città metropolitana, l’hanno votato a Mestre, a Marghera, lo hanno votato gli operai.

Pensate che lui è figlio di Ferruccio Brugnaro, che è stato uno dei più grandi poeti operaisti nella storia della letteratura italiana.

Scriveva poesie, le ciclostilava, le portava ai picchettaggi… e questo è il padre del sindaco di Venezia che, alla sua seconda amministrazione, non ha fatto nulla per contenere il flusso turistico. Anzi, ha fatto l’opposto. 

 

Mi chiedo perché certe persone facciano politica. Per il proprio tornaconto personale? Possibile che sia svanita la vocazione?

Se diventassi sindaco di Venezia farei le cose più innovative del mondo. Perché? Perché voglio lasciare un segno, voglio l’eternità laica: voglio essere ricordato per aver fatto qualcosa di utile per tutti.

Oggi la politica in Italia è diventata puro arrampicamento sociale. 

 

Ferruccio, ogni volta che legge le sue poesie in pubblico, pone una condizione: suo figlio non deve essere presente.

Non lo stima, lo detesta. È un fallito, un infelice. Ok? L’ho detto.

Scrivetelo pure: non ho calunniato nessuno.

 

ML 

E intanto Fifo chiude...

 

Francesco Sossai

Ho parlato di questo tema con Romolo Bugaro, un grande scrittore, e mi ha detto: "una persona seduta dietro un bancone per otto ore al giorno, tutti i giorni della sua vita, a vendere qualcosa… non ti sembra già il sogno di un mondo che non c’è più?"

 

Basta, secondo me è questo. E Le città di pianura canta proprio questa cosa.

 

[Intervista a cura di Marco Lovisato e Alice Iuri]

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