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Elisa Zanetti è una donna di 35 anni che da dieci vive nella (immaginaria) comunità carceraria di Montaldo nella Svizzera francese, da quando è stata condannata a una pena di vent'anni di reclusione per l’omicidio della sorella.
Nonostante un’apparente amnesia che avvolge i fatti di cui è responsabile e che le è valsa il riconoscimento del vizio parziale di mente, Elisa decide di partecipare alla ricerca del criminologo Alaoui e di intraprendere con lui un percorso di dialogo su quanto accaduto.
[Il trailer di Elisa]
Tratto dall’esperienza dei due criminologi Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali confluita nel libro Io volevo ucciderla, Elisa è il punto di congiunzione di varie storie di cronaca nera poste al vaglio dell’analisi criminologica attraverso un viaggio interiore sulle radici e i moventi di una violenza efferata, per di più sganciata da fattori psicopatologici o di disagio, con lo scopo di ricercare la responsabilità nell’umanità.
Un materiale di partenza incandescente che pone di fronte a due aspetti tanto cruciali quanto negletti della contemporaneità: la cecità e banalità della violenza e l’esperienza carceraria, che pure il regista a mio avviso fatica a toccare da vicino.
La scelta del regista Leonardo Di Costanzo di narrare il carcere fuori dalle sue forme più convenzionali, attraverso l’esperienza di comunità carcerarie aperte e innovative ispirate ai modelli esistenti in Nord Europa, estrae la vicenda di Elisa dalla realtà e crea un’ulteriore barriera tra il dolore della protagonista e lo spettatore.
Ho trovato che l'approccio troppo scolastico e didascalico abbia smorzato la componente emotiva ed empatica della vicenda, approdando a una messa in scena rigida e ripetitiva.
Il volto fin troppo riconoscibile di Barbara Ronchi nei panni della protagonista invece che dare spessore e corpo alla pellicola ne affievolisce la potenza espressiva, in una recitazione pedissequa che fatica a far riemergere dalla memoria di Elisa ciò che è stato sopito dalla colpa.
Anche la sua paura, la freddezza e l’astuzia manipolatoria, seppur coerenti con l'apparenza da ragazza della porta accanto, sembrano sempre attutite da un’interpretazione distaccata, che sfiora appena questo male fratricida.
È interessante il ruolo dei comprimari, in particolare del padre di Elisa (Diego Ribon) e del personaggio di Valeria Golino, che pur essendo agli antipodi della narrazione - lui ha perdonato la figlia, lei non riesce a perdonare gli autori del massacro del figlio - restituiscono la complessità delle relazioni e delle reazioni umane di fronte alla violenza, che neanche la scienza criminologica può davvero indagare.
Elisa ha il pregio di seminare in chi guarda la speranza che il carcere possa costituire un’esperienza davvero rieducativa, in grado di restituire la possibilità di un reinserimento sociale.
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