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Long Story Short - Recensione: una normale famiglia disfunzionale

Raphael Bob-Waksberg, creatore di BoJack Horseman, ha ancora tanto da raccontare

Long Story Short è una serie animata creata da Raphael Bob-Waksberg, già creatore e showrunner di successo grazie all’amata e acclamata BoJack Horseman

 

Già prontamente rinnovata da Netflix per una seconda stagione, in questa prima stagione composta da dieci episodi Long Story Short affronta varie vicissitudini degli Schwooper, una normale famiglia ebrea. 

 

[Il trailer di Long Story Short]

 

 

Gli eventi non sono narrati in modo ordinario, in ciascun episodio si va infatti avanti e indietro nel tempo, mostrando anni diversi per spiegare e rafforzare gli eventi che avvengono in momenti diversi della vita di ciascuno dei protagonisti.

 

In questo tempo non lineare vengono affrontate fasi di sviluppo personale che si concentrano soprattutto sulla vita di Avi (Ben Feldman), Shira (Abbi Jacobson) e Yoshi (Max Greenfield), i tre figli di Naomi Schwartz (Lisa Edelstein) e Elliot Cooper (Paul Reiser) che, nonostante siano cresciuti sotto lo stesso tetto, attuano scelte e affrontano l’avvenire in modo differente tra loro.

 

Long Story Short indaga su questa famiglia disfunzionale alle prese con situazioni che affrontano, prima o poi, la maggior parte delle persone comuni, concentrandosi di fatto su quella quotidianità che può rivoluzionare un intero futuro.

La dramedy da questo punto di vista si allontana molto da ciò che succedeva in BoJack Horseman, in cui il racconto di una stella televisiva consumata dalla fama troppo in fretta mostrava i traumi e i dolori che lascia la vita da celebrità, tenendo gli spettatori ancorati alla realtà e a quelle situazioni che possono ritrovare facilmente nelle proprie case. 

Lo show, infatti, non vuole mostrare semplicemente la vita di questa famiglia, al contrario si concentra su avvenimenti apparentemente insignificanti ma che risultano poi catartici e rivelano qualcosa in più dei comportamenti assunti nel presente/futuro dei nostri protagonisti.

 

La scelta di mettere al centro la disfunzionalità nel quotidiano di una famiglia qualunque rende Long Story Short sicuramente unico, soprattutto nel modo in cui racconta i cambiamenti, accogliendo la gioia e il dolore, la profondità e la superficialità che contraddistinguono la vita di ogni giorno. 

 

 

[Una scena di Long Story Short]

 

Non ci sono riflessioni intense o pensieri filosofici in Long Story Short, ma solo persone che cercano di sopravvivere al mondo nel modo migliore o peggiore possibile.

 

Attraverso gli occhi dei vari protagonisti si nota come uno stesso evento vissuto nel medesimo momento impatti su ciascuno in modo diverso o come le piccole e grandi esperienze possano avere lo stesso peso cambiando completamente il modo di vedere le cose. 

Il tutto, infine, è accompagnato da temi intensi ma familiari: le questioni sul chi essere in futuro, la scelta del lavoro ideale, il problema della progenie, i rapporti fraterni, l’esperienza del lutto… 

 

L’unica cosa di cui ho sentito un’effettiva mancanza in questa prima stagione è che forse non c’è davvero una puntata che lasci senza fiato; nonostante ciò è però impossibile non confermare l’assoluta abilità di Raphael Bob-Waksberg nel raccontare personaggi a 360°, sempre così imperfetti e fastidiosamente umani.

____

 

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