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Dangerous Animals è un film diretto da Sean Byrne con protagonisti Hassie Harrison, Jai Courtney e Josh Heuston, presentato in anteprima alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2025.
“La colpa non è degli squali!”.
Almeno non secondo quel grandguignolesco buontempone di Sean Byrne, per il quale i veri e autentici Dangerous Animals sono fatti stavolta di ben altra e umana pasta.
[Il trailer ufficiale e grondante sangue di Dangerous Animals]
Curioso – e anche un bel po’ beffardo a dirla tutta – che a sollevare una così bislacca ovvietà sia proprio colui che, per una buona e sanguinaria ora e 40 minuti, il vero cattivone lo sarà di fatto se non propriamente di nome.
Un nerboruto e a suo modo affascinante Capitano Achab che, lungi dall’essere iscritto al solito inflazionato club pieno zeppo di Uomini che odiano le donne, più che dar la caccia alla proverbiale balena bianca si diletterà a rapire e mazzolare per benino giovani, carini, possibilmente danarosi e spesse volte assai molesti balneari di (ultimo) passaggio.
Meglio, manco a dirlo, se dotate di un bel seducente cromosoma XX.
Una sorta di Thanos della Gold Coast, insomma.
Evidentemente laureato a pieni voti al medesimo corso di vendicativa ecologia sociale frequentato dall’implacabile Dottore del provocatorio Veneciafrenia - Follia e morte a Venezia di Álex de la Iglesia e come lui pertanto deciso a dare un più che mai letterale taglio netto al dilagante e molesto turismo di massa senza più alcun controllo.
[Il folle capitano Tucker e la sua gabbia dorata pronti a salpare alla volta dei Dangerous Animals]
Un tipetto assai curioso il nostro Tucker: non solo per il possente e assai psicotico physique du rôle di un Jai Courtney in stato di psicopatica grazia, quanto piuttosto per la sua innata propensione ad accettare chiunque a bordo del proprio peschereccio, adibito a esperienze di shark cage prima che i rimasugli di arti e frattaglie degli occasionali Turistas finiscano per saziare la vorace fame degli zannuti Dangerous Animals che infestano le calde acque dell’Australia orientale.
La sua in realtà non è la solita inflazionata Trappola in alto mare, quanto piuttosto un subdolo giochino del gatto col topo – o del pesce con l'amo, se più vi aggrada – orchestrato direttamente con i piedi in infradito ben piantati in terra.
Su quell’assolata e vacanziera terraferma nella quale la bella e incasinata Zephyr (Hassie Harrison) e l’altrettanto bello ma ben più quadrato Moses (Josh Heuston) avranno fortuito modo d’incontrarsi e sessualmente scontrarsi.
Galeotto fu il motore che non partì, come disse il buon poeta.
A differenza della sopracitata ragazzotta interrotta che, facendo fede al proprio ventoso e omerico nome, consumato il fugace amplesso non mancherà d’inforcare armi, bagagli e fida tavola da surf per darsela a gambe al primo soffio di vento, lasciando il povero e onesto toyboy con un palmo di naso e un cuoricino irrimediabilmente spezzato.
[Hassie Harrison unica e sola final girl di Dangerous Animals]
Di lì a poco ci penserà tuttavia il nostro skipper dal macho barbone e dalla facile lama a rimettere le cose al loro giusto posto, rapendo la bionda fuggiasca e rinchiudendola nelle viscere della sua personale casetta galleggiante delle torture dove altre tapine prima di lei già ebbero la (s)fortuna di saggiare sulla propria abbronzata pellaccia i sadici gusti dell'incontrastato sovrano dei Dangerous Animals.
Il nostro – che oltre che pazzo è pure un tantino cinefilo – nonostante una latente romanticheria tipica di chi le rotelle non le ha certo tutte al giusto posto non mostrerà infatti alcuna particolare remora nel far plateale endorsement alla ricca tradizione della filmografia horror, imbracciando a sua volta la medesima videocamera del fu Henry, pioggia di sangue con la quale documentare per filo e per segno l’assai barbina fine riservata alle sue incaute e parecchio aitanti prede.
Come mai codesto Peeping Tom in bermuda e camicione multicolore farebbe tutto ciò?
Beh, perché, per sua stessa e diretta ammissione “Senza un predatore a far pulizia, le prede lasciate a sé stesse non portano altro che caos!”.
[Josh Heuston è gustoso cibo per squali in Dangerous Animals]
Un’autentica supercazzola fatta e finita, più che mai degna di un onesto e succoso B-movie quale di fatto è Dangerous Animals.
Un pretesto quantomai pretenzioso, frutto di una sciroccata mente assassina cresciuta a pane, merluzzo e Saw, il cui delirante promotore parrebbe trovare autentica libido nel collezionare snuff movie caserecci dove la reiterata e ben poco originale trama ruota attorno a occasionali e frignanti bellezze al bagno, appese fuoribordo come freschi quarti di bue in attesa di divenire la portata principale di un affollato shark party tutt’altro che improvvisato.
Sangue? Presente!
Tensione? Più che a sufficienza!
Love story? Un pizzicorino tanto per gradire. Uno straccio di plot? Quel tanto che basta.
Squali?
Meno di quel che si potrebbe pensare; soprattutto per un horror estivo ambientato fra le onde del Mar dei Coralli che per giunta si porta sul groppone un titolo come Dangerous Animals.
Gli ingredienti essenziali per un disimpegnato intrattenimento senza arte né parte né tantomeno particolari pretese parrebbero dunque esserci tutti, ma a mio avviso un pizzico di mordente in più e una narrazione più corposa avrebbero giovato a un’operazione che, questo le va certamente riconosciuto, trova il proprio vero e forse unico merito nell’averci servito senza troppi fronzoli un'ideuzza tutto sommato fresca e che con l’ormai prosciugato pescione spielberghiano ci sta per una volta quanto una grattata di Parmigiano su una bella impepata di cozze.
Se infatti con il demoniaco The Devil's Candy un Sean Byrne sotto evidenti stati alterati di filmica coscienza aveva optato, ormai un decennio fa, per un sovrannaturale connubio tra Belzebù il più ruvido heavy metal, stavolta il nostro cinemaniaco della terra dei canguri sceglie piuttosto di ritornare con Dangerous Animals alla dimensione pericolosamente e follemente più “umana” di un delirante battesimo del fuoco quale fu l’impareggiabile The Loved Ones.
D'altronde, così come il soffocante You'll Never Find Me dell'esordiente duo Allen-Bell e il doppio colpo messo in atto dagli ispiratissimi Fratelli Philippou con il mortifero Talk to Me prima e il ritualistico Bring Her Back poi ci hanno recentemente dimostrato, se l'andazzo dovesse rimanere questo allora molto probabilmente l'Australia e i suoi nuovi talentuosi autori sono destinati a seppellirici tutti Sex Feet Under e ben oltre.
[Jai Courtney e il suo fidato secchio di sangue protagonisti di Dangerous Animals]
Tornando a noi e ai nostri Dangerous Animals niente più spettri, demoni, mostri o qualsivoglia ulteriore ultramondana amenità che non sia quella incarnata da uno sciroccato homo (killer) sapiens dal seriale appetito e dall’incontinente voglia d’imbrigliare al suo affilato amo coloro che egli ritiene responsabili della rottura di un non meglio definito, né tantomeno giustificato filmico status quo.
Non certo Il vecchio e il mare di hemingwayana memoria, quanto piuttosto un pazzo e il suo beccheggiante harem di giovane carne e fresco sangue dati in pasto, a mo’ di profana eucarestia, a coloro che in altri luoghi e in altri laghi – per non dire piuttosto altri mari – sguazzerebbero famelici nel solito Blu profondo o, all’occorrenza, pure tra le spire di uno scatenato quanto improbabile tornado targato Asylum.
Il nostro Tucker è dunque un cane sciolto parecchio sfregiato nel corpo, ma non certo nello spirito; quest'ultimo in realtà ben corroborato da alcol, cafonissimi balletti a petto rigorosamente nudo e sessioni di taglia, sbrana e cuci sulle note di Evie di Stevie Wright – e perché no, pure della ben più mondana Baby Shark – come un novello Mr. Blonde fuoriuscito da una delirante versione marinaresca de Le Iene tarantiniane.
[Uno sfregio e una bella bevuta in compagnia è quel che ci vuole in Dangerous Animals]
Non vi è tuttavia molto spazio per approfondimenti psicologici o altri particolari giochetti retorici dal retrogusto autoriale in un film come Dangerous Animals poiché, come d’altronde anche il buon Ben Wheatley ci ha insegnato con un blockbusterone di ben poche pretese quale fu Shark 2 - L’abisso, quando di mezzo ci si mettono l’oceano, l’emoglobina e le ridottissime pretese non serve a nulla cercare la perla nascosta in profondità nella conchiglia, vero?
Fossimo seduti al banco di un chiringuito a sorseggiare piña colada con metà cervello impegnata a rimuginare su quanto visto e l’altra metà che immagina il colore del prossimo costume da bagno da indossare, potremmo forse affermare che Dangerous Animals è quel che si dice un film che si lascia guardare, senza tuttavia lasciare nulla di veramente importante dietro di sé.
Considerando dunque la tesa e incalzante – seppur oggettivamente assai anonima – regia di un Byrne senza infamia né lode, unita a uno sviluppo narrativo condotto in linea retta col pilota automatico su acque certamente dense ma tutt’altro che (s)mosse, verrebbe certamente da confermare quanto detto e sottoscritto fino a questo punto.
[Dangerous Animals: indovina indovinello, chi è che muore nel galleggiante castello?]
Una lancia – anzi, una bella fiocina – in favore della nostra final girl senza fissa dimora né duraturi amori ci terrei tuttavia a spezzarla senza troppi complimenti, non fosse che per il labile seppur tragico background che l’accompagnerà per tutto il suo calvario di fuga, prigionia, ri-fuga, re-ingabbiamento e immancabile rivalsa finale.
Un trascorso del tutto ininfluente a livello di sceneggiatura, che tuttavia darà alla nostra agguerrita marlin quel tanto che basterà per lottare con le unghie e con i denti contro un implacabile orco dei flutti, arrivando da sola a concludere ben più di quanto la sua sedotta e abbandonata controparte maschile non riesca a combinare in quasi 100 minuti di concitato e sudoriparo running time.
Chi sono dunque i veri Dangerous Animals?
Se siete giunti fin qui senza cadere in un letargico sonno e soprattutto con la buona volontà di sorbirvi fino in fondo tutte le mie critiche elucubrazioni, allora la risposta dovrebbe apparirvi ben chiara indipendentemente dal fatto di aver occhieggiato o meno il suddetto survival movie iniettato di sangue e bagnato dalla salsedine.
[Un bel faccino e una cravatta non salveranno nessuno in Dangerous Animals]
So per certo inoltre che, nell’era del politicamente (s)corretto, del più che lecito nonché benvenuto post #MeToo e di quel tanto dilagante “woke” di cui tutti parlano, ma che ben pochi hanno saputo scientemente tematizzare, certe cose appaiono oggigiorno decisamente demodé, per non dire fastidiosamente fuori luogo.
Lasciatemi dire tuttavia che un film come Dangerous Animals, che possiede l’evidente sfacciataggine di chiudere le proprie adrenaliniche danze catapultandoci di peso dritti a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso con un’infradiciata biondina pronta letteralmente a silurare la propria assassina nemesi al grido di “Ooby Dooby Motherfucker!”, beh: per quanto mi concerne merita se non tutto il mio rispetto, quantomeno un briciolo della mia più genuina e cinefila simpatia.
Nulla di più, sia chiaro.
Il resto, come si suol dire, è solo cibo per i pesci...
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