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F1 - Il film è un'opera così coerente con le proprie intenzioni da risultare trasparente.
Il nome di Brad Pitt integrato nel logo ufficiale della pellicola, la regia tecnicamente inappuntabile di Joseph Kosinski, le musiche di un sempre ispirato Hans Zimmer, il tutto tenuto saldamente in mano dalle mani esperte di Jerry Bruckheimer, capace di concertare una produzione da circa 300 milioni di dollari alla quale hanno partecipato direttamente la Formula 1, Apple TV+ e Warner Bros.
Non stupitevi dunque di leggere nomi come quelli di Stefano Domenicali e Lewis Hamilton nei titoli di testa del film: F1 è un film sul sogno della più importante competizione automobilistica al mondo ma soprattutto è l'ennesima celebrazione dell'eterna centralità del divismo "Made in Bruckheimer & Kosinski".
Un blockbuster vecchio stampo, ma che non può e non deve mai passare di moda, nella prospettiva di Hollywood.
F1 deve essere il film dell'estate del 2025: un prodotto per cui ogni risultato che non sia il maggior incasso mondiale della sua finestra di uscita sarebbe un fallimento.
Un'operazione che necessita della miglior realizzazione possibile sotto ogni profilo per cogliere nel segno nel sempre più complesso mercato cinematografico mondiale, vieppiù incline a sfavorire il successo di queste mega-produzioni.
[Il trailer internazionale di F1]
Sgomberiamo quindi il campo da ogni ulteriore ipotesi: F1 non vi mostrerà mai i segreti e le controversie sommerse di un universo estremamente complesso come quello della Formula 1, ma se avete scelto di approcciare il film con queste intenzioni siete voi ad essere fuori strada.
F1 invece racconta la storia, irresistibile nella sua linearità hollywoodiana, del Sonny Hayes interpretato da Brad Pitt: si tratta ovviamente di un pilota di enorme talento, a cui un incidente ha tolto la possibilità di competere al massimo livello del motor sport mondiale, a cui la vita - e la disastrata fittizia scuderia Apex GP diretta dal suo ex compagno Ruben Cervantes (Javier Bardem) - offrono la possibilità di tornare in pista e rivivere il sogno di poter essere, almeno per una singola gara, il migliore del mondo.
L'assunto dell'opera, in breve, è esattamente quello che vi aspettereste da un film sportivo con un ultrasessantenne come Brad Pitt come protagonista e con il veterano Ehren Kruger alla sceneggiatura.
La forza del film sta, però, nella sua capacità di risucchiare lo spettatore dentro un cocktail di ingredienti noti attraverso la propria eccelsa qualità tecnica.
F1 si apre con una scena eccezionale, che delinea perfettamente il personaggio di Sonny Hayes e fornisce allo spettatore tutte le ragioni necessarie per entrare nell'opera e non uscirne praticamente più.
Sulle note di Whole Lotta Love dei Led Zeppelin facciamo la conoscenza del protagonista dell'opera che emerge da un van, inserisce una carta da poker nella sua tuta e si appresta a guidare nella 24 ore di Daytona.
Sonny entra in corsa con la squadra in leggera difficoltà, alla fine della sua performance il team sarà primo e conservando la posizione vincerà la gara.
[La scena di apertura di F1 è un'autentica dichiarazione d'intenti dell'opera]
Una sequenza che è un trionfo cinematografico quasi futurista: esaltazione della velocità, del movimento delle macchine e dei corpi, un montaggio che esalta i dettagli della componente umana all'interno della competizione, un'esplosione di adrenalina che viene sublimata dai fuochi d'artificio, che risultano un'aggiunta al contempo kitsch e inequivocabilmente adeguata per l'apertura di un'opera che non ha paura di dichiarare tutte le sue intenzioni.
A fine gara Sonny Hayes si rifiuta di toccare la coppa e di tornare a competere per la sua squadra.
Lo spettatore fa così conoscenza con i suoi ideali: mai fermarsi in un posto, sempre lasciare al top, possibilmente dopo aver vinto.
A detta del regista è stato proprio Lewis Hamilton a suggerire che le gare di endurance sarebbero state un ottimo contesto per inserire il decadente Sonny Hayes all'inizio di F1.
Agli occhi di uno spettatore più smaliziato appare però chiaro che l'immagine del pilota trasandato che dopo l'incidente si è giocato la carriera a causa dei propri eccessi al punto di vivere in un van sia uno sfruttamento, del tutto legittimo e quasi inevitabile, dell'immagine-personaggio che Brad Pitt si è costruito nell'ultimo lustro della sua carriera grazie soprattutto allo splendido Cliff Booth scritto per lui da Quentin Tarantino.
Un divo sul viale del tramonto, che però ha ancora vari trucchi e assi nella manica da tirar fuori.
Inutile specificarvi, dunque, quale sia la carta da poker - mai mostrata agli spettatori - che ogni volta Sonny nasconde nella sua tuta, d'altronde l'assonanza del cognome Hayes con la parola asso (ace in inglese) è così smaccata da far sorridere.
[Il Brad Pitt di F1 sembra essere basato sulla piega allegramente decadente presa dall'attore nell'ultimo lustro]
Tutto perfettamente coerente con la storia produttiva di Jerry Bruckheimer e con la traiettoria assunta da Joseph Kosinski.
Il primo è lo storico produttore (tra i tanti) dei due Top Gun, delle prime pellicole di Michael Bay e della saga di Pirati dei Caraibi ed è forse l'ultimo cineasta statunitense così strettamente legato all'idea divistica di eroe e un concept di Cinema di intrattenimento ad altissimo tasso spettacolare.
Il secondo sembra essere diventato il regista preferito di Hollywood per i suoi tentativi di coniugare il suddetto divismo con un livello elevatissimo di perfezione tecnica.
Nello specifico, l'intento meramente estetico di Kosinski era quello di ottenere il più autentico film sulle corse possibile: in questo, il film, è riuscito oltre ogni ragionevole dubbio.
Complice il coinvolgimento diretto di F1 e la realizzazione delle riprese nel corso delle gare ufficiali del circuito, la rappresentazione delle competizioni è a dir poco mozzafiato, tanto nei campi lunghi quanto nelle soggettive dagli abitacoli.
Il board della Formula 1 sarà senz'altro entusiasta del risultato: il film sembra restituire allo sport quella patina di scintillante emozione che sembrava essersi persa da anni sotto il peso dei regolamenti e di gare sempre meno imprevedibili.
In tal senso oltre alla perizia di Kosinski devono essere elogiati gli straordinari lavori di tre super professionisti di Hollywood come il già citato Hans Zimmer, Claudio Miranda (Direttore della Fotografia) e Stephen Mirrione (montatore).
[Sul canale ufficiale di Hans Zimmer trovate tutta la colonna sonora di F1]
L'intento di Bruckheimer era chiaramente, invece, quello di portare a casa un prodotto perfettamente nel proprio stile.
Un blockbuster con al centro un eroe - furbescamente presentato come un outsider - proveniente direttamente dalla Hollywood degli anni '80-'90, ancora capace di rivoluzionare in un contesto ipercinetico e ipersofisticato come quello della Formula 1, che per di più è anche l'El Dorado del product placement.
L'intento metacinematografico dell'operazione è tutto lì da vedere: danzando con simpatia sull'orlo del paternalismo senza mai cadervici, Sonny Hayes svezza il talentuoso James Pearce (Damson Idris), flirta spudoratamente con la direttrice tecnica Kate McKenna (Kerry Condon) e insegna alla scuderia - inclusi ingegneri e meccanici pluri-campioni del mondo - tutti i trucchi necessari per sgomitare contro le scuderie competitor.
F1 sembra gridare a pieni polmoni che Hollywood ha ancora bisogno di eroi e di divi, che le produzioni cinematografiche possono solo trarre giovamento dall'inserire queste icone nei loro progetti e che vecchie e nuove generazioni possono collaborare, a patto che queste ultime mettano da parte il "rumore" proveniente dai social media.
Non l'epitome del progressismo, sia chiaro.
Anzi, un tentativo di restaurazione produttiva e narrativa in piena regola, ma effettuato con grande classe, ma in fondo cosa vi aspettavate da un film di Jerry Bruckheimer?
Lontano da temi delicati come guerra, detenzione in carcere e adattamento dei classici letterari è senz'altro di più facile accettazione la retorica sottesa alle sue opere.
[In F1 non può e non deve mancare il contrasto tra generazioni di piloti e attori]
Al di là della quantità ovvia di cliché necessari alla riuscita dell'operazione e di un piccolo (grande) buco di sceneggiatura che si materializza all'ingresso di Brad Pitt nella prima gara, lo script di Kruger presenta a mio avviso diversi punti di interesse.
In primo luogo il film è piuttosto scaltro nel mostrare una serie di tecnicismi della F1 disseminandoli nell'opera come trovate di Sonny Hayes.
In secondo luogo, l'attenzione al realismo del commento sulle gare è sicuramente più marcata che in tanti film sportivi: le telecronache si lasciano ben presto alle spalle i convenevoli introduttivi e diventano ben presto adeguate a dipingere l'epicità del film.
In tal senso la scelta di affidarne il doppiaggio italiano a un bravissimo Carlo Vanzini e a Marc Gené, è senz'altro appropriata ma incredibilmente più riuscita di altre scelte omologhe in altri film sportivi.
F1 si presenta, dunque, come un'operazione perfettamente riuscita.
L'ingrediente segreto per la compiutezza del film sta, probabilmente, nell'immagine del suo protagonista: l'imperfezione, tanto caratteriale quanto estetica, del personaggio di Sonny Hayes rende il film incredibilmente più umano e "caldo" di quanto solitamente riesce al pur bravo Joseph Kosinski, solitamente imbrigliato in un'estetica algida e mascolina ma proprio per questo totalmente distaccata dalla tangibilità.
[E se F1 diventasse, quasi involontariamente, capofila di un modo di fare blockbuster che accetta più facilmente l'umanità dei suoi protagonisti?]
I dettagli sugli occhi di Brad Pitt incorniciati dalle rughe, sui suoi tatuaggi sbiaditi e sulla sua schiena martoriata divengono così contraltare perfetto per il lusso e il cinetismo che traspaiono sin dalla lettura del titolo dell'opera: F1 - Il film.
La trasparenza con le proprie intenzioni, d'altronde, è un importante capitale da spendere agli occhi degli spettatori. Un capitale anche superiore al budget fuori scala e fuori tempo dell'opera.
Chi va al Cinema ama sapere esattamente cosa va a vedere.
L'incontro tra la trasparenza delle intenzioni e una certa componente umana rende però un prodotto simile decisamente più apprezzabile: che anche la vecchia Hollywood abbia realizzato che non tutti i divi travestiti da eroi portano sullo schermo le stesse caratteristiche antropologiche?
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