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Questa sono io - Recensione: non è mai troppo tardi

Presentato in anteprima mondiale all'80ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Questa sono io arriva nelle sale italiane con quasi due anni di scarto ponendo interrogativi non più rimandabili sulla potenza della narrazione di storie queer e sul suo uso non sempre efficace 

Questa sono io è diretto da Małgorzata Szumowska e Michał Englert ed è la terza collaborazione a quattro mani tra la regista e il direttore della fotografia, che dimostra l’ottima salute del Cinema contemporaneo polacco e la sua dimensione internazionale.

 

Il titolo italiano è l'adattamento di Kobieta z…, cioè "donna di…", omaggio alla cinematografia di Andrzej Wajda; scelta che meriterebbe di entrare in lizza per l’Eternal Sunshine Award per l’essere estremamente didascalico, non è però lì che risiedono a mio avviso le criticità di un film necessario, ma non corretto. 

Credo sia doveroso fare una premessa, sulla quale ho riflettuto appena terminata la visione di Questa sono io: una narrazione gentile, alleata, che tocca temi oggigiorno sempre più centrali per la strenua lotta per l’affermazione - e in molti casi, ahimé, il mantenimento - dei diritti della comunità LGBTQIA+ è importante, ma non basta più.

 

Specialmente se tale narrazione, pur nelle sue più positive intenzioni, ricalca ancora topoi stereotipici sulla vita delle persone trans*, come Questa sono io non esime di fare pur senza alcun dolo.

 

 

[Il trailer italiano di Questa sono io]

 

 

Nella grande varietà umana ogni storia è diversa dalle altre e non è mia intenzione affermare che la storia di Aniela, protagonista di Questa sono io, non possa trovare riscontro nella realtà quotidiana.

 

Non voglio nemmeno negare che qualcunə possa essersi rivistə nel suo difficile percorso, in particolare in un paese come la Polonia in cui i diritti della comunità queer sono da sempre osteggiati, ma proprio per la varietà suddetta perché ancora nel 2023, anno di produzione di Questa sono io, si sceglie deliberatamente di raccontare solo la sofferenza di un percorso di affermazione di genere e non la sua gioia? 

 

La storia di Questa sono io è semplice: Aniela è nata in un corpo maschile, che non ha mai riconosciuto come proprio e, sebbene il coming out avvenga in età adulta, il percorso di transizione procede strenuamente, in mezzo a difficoltà che possiamo immaginare, portandola a vivere finalmente come si è sempre sentita. 

Il fatto che tutto ciò avvenga nella Polonia pre e post-caduta del Muro di Berlino fino ai giorni nostri, in cui non c’è ancora una legislazione a sostegno di ogni tipo di transizione e affermazione di genere, non può che aiutarci a contestualizzare il motivo di mostrare in primis le difficoltà che una donna trans si trova ad affrontare.

Il problema è che oltre a esse non c’è molto altro.

 

Questa sono io è un film di immagini più che di parole, di inquadrature delicate ma incisive, come il confronto tra Aniela e l’ex moglie Izabela - la star polacca Joanna Kulig, protagonista dell’acclamato Cold War di Paweł Pawlikowski - su una rampa di scale, in cui i tre piani ripresi in campo lungo sono illuminati da tre luci di colore diverso provenienti dalle finestre, mostrando i colori della bandiera pansessuale, blu, fucsia e giallo, in ordine sparso.

 

Particolare che non mi ha fatto capire se sia stata una scelta voluta o meno, ma l'ho comunque trovata una bella messa in scena. 

 

 

[Questa sono io: i colori della bandiera pansessuale illuminano lo sfondo dell'incontro tra Aniela e Izabela dopo il divorzio]

 

 

Il fluire delle immagini spesso al ralenti unito alla musica extradiegetica e ai colori vividi, soprattutto nella prima parte del film, ricordano l’estetica di Les Amours imaginaires di Xavier Dolan, e non è l’unico collegamento al cineasta canadese: tutta l’impostazione di Questa sono io ricorda moltissimo Laurence Anyways e il desiderio di una donna, storia di una transizione, di un matrimonio che entra in crisi e di una ricerca di sé.

 

Peccato che i parallelismi ci siano sia in positivo - la fotografia, l'uso della musica, i colori e la narrazione - sia in negativo, ovvero il cis gaze

Non basta essere queer per poter rendere giustizia alla narrazione trans*, come è purtroppo accaduto proprio con il film di Dolan, che ha diviso il pubblico tra chi lo ha considerato importante (e forse, negli anni in cui è stato prodotto lo era davvero) e chi ha trovato nuovamente una retorica svilente e poco, se non proprio per nulla, rappresentativa dell’esistenza trans*. 

 

Io stessa mi trovo in grandissima difficoltà a parlare di un film come Questa sono io senza considerare che da donna cis non posso comprendere a pieno cosa significhi fare un percorso di affermazione e non posso dunque giudicare se sia stato raccontato nel modo corretto.

Ciò che so è che il dialogo continuo con la comunità LGTBQIA+ e la lettura di testi che trattano di identità di genere e di superamento del binarismo su cui la nostra società è costruita mi pongono più di un interrogativo sulla modalità di racconto delle storie trans* e sulla loro correttezza da parte di persone cis. 

 

La polemica spesso sollevata nel mondo del Cinema secondo la quale si debba raccontare o impersonare solo chi si è qui non c'entra, perché il problema è la prospettiva dell’approccio alla storia, non la storia in sé.

Se Questa sono io ha un pregio rispetto a Laurence Anyways – e rispetto purtroppo al tanto valido quanto vituperato Emilia Pérez – è il fatto di aver coinvolto persone queer e trans* nella realizzazione del lungometraggio, cadendo però su un punto fondamentale, e ancora più fondamentale nel 2023: sia l’Aniela giovane sia l’Aniela adulta sono impersonate da due attori cis, Mateusz Więcławek, un uomo, e Małgorzata Hajewska-Krzysztofik, una donna.

Ma c’è di più.

 

Se l’Aniela giovane scopre sé stessa attraverso una queerness privata ma mostrata sullo schermo, che la identifica con le sue numerose sfaccettature, l’Aniela adulta, che ha dunque già affermato sé stessa attraverso il percorso di transizione, non ha più alcuna di quelle sfaccettature che rendono ognuno di noi una persona unica: è piatta, scialba, identificata esclusivamente dalla sua transizione, come se non fosse altro se non una donna trans.

 

 

[Questa sono io: Mateusz Więcławek è Aniela da giovane]

 

 

La lingua inglese ci viene in aiuto con la parola “transitioning”, ovvero “compiere una transizione”, che renderò in italiano con il poco utilizzato “transizionare”.

 

È come se Questa sono io de-transizionasse man mano che Aniela transiziona, creando quella situazione straniante, sofferente e, mi rendo conto, avvilente di esclusiva concentrazione sull’aspetto chirurgico e genitale, come se essere trans* si riducesse solo a questo. 

Aniela è costretta a divorziare dalla moglie per poter affermare il proprio genere: questo perché il matrimonio egualitario né le unioni civili sono riconosciute dall’ordinamento giuridico polacco.

Aniela è così costretta ad andare via di casa, trovando rifugio presso un convento di suore.

 

Durante una doccia Aniela si mostra nuda alle consorelle, rivelando i genitali e segnando così il suo allontanamento dal convento.

Questa scena di Questa sono io mi ha richiamato alla mente Girl, primo lungometraggio di Lukas Dhont, altro regista queer che ha però calcato un po’ troppo la mano con il cis gaze: il mostrare i genitali di una persona trans* per sottolinearne la disforia non fa un buon servizio alla comunità, non tanto nel trasmettere delle istanze quanto nel raccontarle adeguatamente.

 

Ribadisco che il male gaze non è appannaggio dei soli uomini, così come il female gaze non è appannaggio delle sole donne: anche il cis gaze non ha genere o orientamento e può essere, e purtroppo spesso è, anche interno alla stessa comunità.

 

Perché quindi è così difficile trovare quel cambio di passo da una narrazione ormai stantia?

 

[

[Questa sono io: Aniela ritrova sé stessa grazie al sostegno della comunità queer] 

 

 

Isa Borrelli, nel suo saggio Gender is Over, affronta il discorso sul genere, sull’affermazione, sull’ideologia eterocispatriarcale e binaria trattando tutti i temi che appartengono alla sfera della vita trans* e non binaria, che sono tanti e variegati e non possono più essere taciuti, nemmeno dal Cinema.

 

Dalla retorica della naturalità e dell’essenzialismo biologico all’imposizione di stampo illuminista (strano, vero?) dei genitali come giustificazione del sesso e del genere di un3 individu3 per affermare ai tempi la subalternità del genere femminile, sono tanti i fardelli che accompagnano ancora le narrazioni cis ed etero.

Uno su tutti l’uso del linguaggio, che nel caso dell’esistenza trans* si caratterizza sempre per sottrazione, per porre l’accento su quella che viene vista come una mutilazione più che un’affermazione.

 

Borrelli propone così il cambiamento di prospettiva, anche nel modo in cui si parla delle cose: costruzione del torace più che rimozione del seno, laddove si parli di chirurgia, euforia di genere invece che disforia, laddove si parli di benessere psicologico.

La dimensione patriarcale dei discorsi sull’affermazione di genere si denota dalla centralità del pene, dalla sua presenza o assenza e dalla sua eventuale rimozione: questo è anche uno dei topoi più ricorrenti nel Cinema che racconta le transizioni, in particolare le storie di donne trans* come Aniela in Questa sono io.

 

Aniela è accettata dalla famiglia, dai figli, dal fratello e pian piano anche dai genitori. 

I suoi colleghi la sostengono (a debita distanza), la comunità queer la accoglie e la ama permettendole di amare sé stessa. Anche Izabela la accetterà, innamorandosene ancora. Questa sono io è tutto sommato una bella storia, a lieto fine.

Però.

 

Questa sono io è una storia, non “la” storia. 

Una delle frasi che Aniela si sente dire come conforto è che “non è mai troppo tardi”, ovvero non c’è un momento giusto o sbagliato per fare coming out e iniziare un percorso di affermazione di genere.

 

Mi sento di parafrasare questo discorso, assolutamente corretto, dicendo che non è mai troppo tardi anche per cambiare il modo di raccontare certe storie, magari senza focalizzarsi su un sistema binario che, lo vogliamo o no, ha fatto il suo tempo.

 

 

[Aniela e la figlia Stefania giocano insieme in Questa sono io]

 

 

La realtà è sempre più avanti della sua regolamentazione, checché ne pensino i nostri governi e legislatori.

 

La realtà è sempre più complessa e non merita di essere ridotta a una sola dimensione perché è meno impegnativo, è più gestibile, è più facilmente accettabile ed è forse arrivato il momento di narrazioni alleate che si svestano di paternalismo e maternalismo e si rivestano di sorellanza transfemminista.

 

* La scelta di usare la schwa al singolare e al plurale è intenzionale, perché parlare di certi argomenti rende il suo uso a mio avviso fondamentale.

Intenzionale è anche il non aver mai usato il deadname del personaggio di Aniela, come invece viene reiterato spesso all’interno di Questa sono io: nel racconto ha un suo motivo, ma non ce l’ha nelle mie considerazioni. 

Inoltre, ho cercato di trattare i temi con i termini più corretti e laddove ci siano errori non voluti accolgo con piacere eventuali correzioni da chiunque lotti per la stessa causa.

___

 

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