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The Woman in the Yard - Recensione: la finestra sul rimorso

Jaume Collet-Serra torna all’horror con una perturbante allegoria familiare sull’oscurità del senso di colpa targata Blumhouse  

The Woman in the Yard è un film diretto da Jaume Collet-Serra e prodotto da Jason Blum, con protagonista Danielle Deadwyler.  

 

Pochi sono i film che hanno il privilegio - o il limite - di esaurire se stessi nello spazio del proprio titolo: ebbene, malgrado sia più facile a farsi che a dirsi, The Woman in the Yard pare proprio uno di questi.

 

[Il trailer di The Woman in the Yard]

 

 

Un titolo che nel caso dell’opera ultima di Jaume Collet-Serra in realtà esplicita, oltre che incarnare appieno il nocciolo duro, oscuro ed efficacemente essenziale insito nella propria stessa trama.  

 

Cosa aspettarsi, infatti, da un film come The Woman in the Yard se non che ci narri di una Nera Velata Signora - probabilmente imparentata alle sfuggenti Muse di Jaume Balagueró così come alle stregonesche convenute de La Casa 5 di fragassiana memoria - appollaiata su di una panchina sperduta nel mezzo di un immenso campo erboso, così come una delle lontane deambulanti entità del surreale It Follows di David Robert Mitchell? 

Uccellaccio del malaugurio?

Insindacabile memento mori giunto dritto dall’Altrove per reclamare la propria dose di fresche anime? 

 

Oppure, essendo ormai parte integrante di quel tanto decantato elevated horror per il quale lo spauracchio - sia esso mostruoso, demoniaco, fantasmatico o assassino - si rivela nulla più di un pretesto tramite il quale parlarci di bel altre e alte questioni, forse un’ennesima inquietante metafora di quel rancoroso nonché potenzialmente pericoloso rimorso che alberga in ciascuno di noi?

 

Quello stesso mal di vivere, insomma, che titoli di altalenante e recente fattura quali ad esempio Daddy’s Head di Benjamin Barfoot, The Other Side di Oskar Mellander e Tord Danielsson, il maldestro Imaginary di Jeff Wadlow e, almeno per il sottoscritto, il fallimentare The Boogeyman di Rob Svage hanno saputo chi più e chi meno tematizzare proprio attraverso la variegata figura di un ultramondano babau.  

 

"Mi hai chiamata e io sono venuta!” ama ripetere a più riprese la nostra Cupa Mietitrice nel corso dei pochi ma tutto sommato buoni 90 minuti di The Woman in the Yard.

Venuta per cosa? Per rammentarci che “Today is the Day!”.

Certo, ma il giorno di cosa?

Forse proprio il giorno nel quale ma Morte si fa (letteralmente) Nera e, di conseguenza, finisce per farti tale a sua volta.  

 A dirla tutta però questa Woman in Black - così tanto simile all’occulta sospirante matrigna silenziosamente evocata dal magico duo Catet-Forzani al principio del loro criptico Amer - malgrado il già citato titolo non pare essere la vera e unica protagonista di The Woman in the Yard.

 

Almeno non quanto potrebbe esserlo quel topos così caro al Cinema non solo "di genere" a stelle e strisce, che prevede solamente un pavimento, quattro mura e un tetto sulla testa.  

 

 

[Danielle Deadwyler traumatizzata nel corpo e nello spirito in The Woman in the Yard]

 

 

Una casa, insomma.

 

L’alcova familiare per eccellenza che fior fior di autori - ultimo fra tutti lo sperimentale Robert Zemeckis con l’ardito e divisivo Here - hanno posto al centro delle loro narrazioni e che, volendo rimanere in orrorifico tema, tanto l’asteriano Hereditary quanto il recente Heretic di Scott Beck e Bryan Woods hanno saputo riportare al cuore pulsante della nuova paurosa e impaurita Settima Arte. 

 

“Ho fatto un sogno: la casa era finita!”.

Proprio questo disse il buon David (Russell Hornsby) alla mogliettina Ramona (Danielle Deadwyler) poco prima di passare a miglior vita durante quel fatidico e solo evocato incidente automobilistico che l’ha lasciata vedova, oltre che pesantemente infortunata, a prendersi cura della figlioletta Annie (Estella Kahiha) e dell’adolescente primogenito Taylor (Peyton Jackson) nel mezzo di quell’immensa e desolata dimora tanto voluta, ma ora inevitabilmente abbandonata a sé stessa.  

 

È dunque un traumatizzato e assai disfunzionale terzetto familiare quello che tira a campare senza elettricità, parecchie bollette ancora da pagare e con altrettanto sotteso non detto fin dalle primissime sequenze di The Woman in the Yard.   

Una soffocante triade perennemente sul filo del rasoio - nonché di una pericolosa crisi di nervi - malsanamente gravitante attorno a una sofferente e mentalmente instabile matriarca che, così come la delirante Halle Berry co-protagonista del non particolarmente riuscito Never Let Go di Alexandre Aja, più che al sacro ruolo di tutrice parrebbe piuttosto avviata verso quello decisamente più infingardo di psicolabile boogyewoman.

 

Ma come, direte voi, non era mica la summenzionata The Woman in the Yard il vero villain di questo kammerspiel sotto mentito fosco velo?

Abbiate pazienza amici cari, ci arriveremo coi modi e i tempi necessari.

 

Per ora vi basti sapere che ciò di cui i nostri orfani e spaesati Hansel e Gretel dovranno realmente aver paura ha davvero poco o nulla di realmente sovrannaturale.   

 

 

[I tre poveri topolini caduti nelle grinfie della tenebrosa Gatta Nera di The Woman in the Yard]

 


Ameno se avrete la compiacenza di sapere leggere tra le righe, i fotogrammi e la tagliente tensione che sembra perennemente dividere una madre alquanto opprimente da un giovane - seppur prematuramente coscienzioso - ometto di casa desideroso quanto mai di evadere da questa soffocante prigione di funerei ricordi e rinfocolati timori per il futuro.

 

È perciò durante una mattinata come tante, passata a oziare e a crogiolarsi nei malsani postumi di un ormai imperituro The Day After Car Crash, che Lei (Okwui Okpokwasili) giungerà a far visita.

Niente home invasion, porte che sbattono, pentolame indiavolato o soprammobili mandati in frantumi, sia chiaro: solamente un’oscura presenza immobile nel mezzo dell’erboso orizzonte pronta tuttavia ad accorciare inquietantemente le distanze a ogni battito di ciglia.

 

Che fare dunque con questa The Woman in The Yard che incombe minacciosa fuori dalla finestra? Chiamare la polizia?

Saggia decisione, qualora ovviamente la bolletta telefonica, così come le altre utenze, fosse stata opportunamente saldata.  

Sgommare dritti e filati alla città più vicina allora?

Sarebbe ottimo, se non fosse che l’automobile del malaugurio è lasciata a poltrire nella rimessa sul retro sin dal giorno del nefasto incidente e, cosa più importante, l’unica ad avere età e documenti per poterla eventualmente governare si ritrova al momento con una gamba ingessata e un’anima altrettanto distrutta. 

 

Prigionieri involontari di questa ammanta presenza che li terrà perturbantemente sotto scacco dall’esterno della loro fragile abitazione come in un surreale giochino alla gatta (nera) col topo, i nostri tre indifesi porcellini avranno in realtà parecchio da risolvere tra le proprie impolverate mura, prima di doversi preoccupare realmente di colei che dà il titolo a questo dramma a tinte dark.

 

 

[Il rimorso ha le mani sporche di sangue in The Woman in the Yard]

 


Rammentando ovviamente ancora una volta quel famoso adagio che da sempre ci mette in guardia sul fatto che i mostri, quelli veri e concretamente pericolosi, giacciono in primis nelle oscure profondità del nostro animo.

 

Ciò che realmente mi ha lasciato piacevolmente sorpreso di questo The Woman in the Yard - nonché pure un tantino destabilizzato - è la sua curiosa volontà di metterci fin dal principio al cospetto di un’orrorifica minaccia che, in controtendenza rispetto ai cliché di un tale rodato e ormai secolare genere, si dipana quasi interamente col favore della luce del sole più che delle consuete tenebre. 

 

Così come da manualistica tradizione del provetto racconto de paura, l'ombra finirà inevitabilmente per annunciare il palesarsi della sinistra minaccia sino ad avvolgere ogni cosa nel suo mortifero abbraccio; dipingendo una dinamica che, al di là dell’etnia dei personaggi che la popolano, in altri luoghi ma comunque entro il perimetro di un comune senso di Cinema non faticheremmo a pensare come farina del grottesco e subliminalmente provocatorio sacco di un geniaccio del black horror 3.0 quale lo scaltro Jordan Peele

 

Va da sé comunque che il grosso dell’ultramondano casus belli apparecchiatoci sotto gli occhi da un ritrovato Jaume Collet-Serra - qui di ritorno ai brividi duri e puri a oltre quindici anni dal celeberrimo Orphan - si dipana attraverso un autentico orrore in pieno sole.  

 

Ciò che tuttavia rappresenta l’autentico pregio della sceneggiatura imbastita dall’esordiente Sam Stefanak - ovvero il suo reiterare l’oscura metafora di una sovrannaturale minaccia outside necessaria ad attivare il palesarsi di un’inevitabile e claustrofobica resa dei conti tra quell’inside fatto di mura e cuori altrettanto crepati - si rivela alla lunga anche il suo unico vero potenziale limite.  

 

 

[Il giovane Payton Jackson è l'intrepido ometto di casa di The Woman in the Yard]

 


Vi è infatti un certo sentore d’incompiutezza e, forse, anche di reale mancanza di quadratura del cerchio che aleggia pesantemente su tutto il terzo e ultimo atto di questa nerissima fiaba campestre interamente ammassata sulle spalle di un tridente attoriale capace, questo sì, di tener botta per tutta l’incalzante ora e mezza che dà forma e sostanza al proprio umanissimo dramma.  

 

Volendo tuttavia scavare più in profondità sotto la scorza delle apparenze, tentando persino di mettersi per una volta nei panni del suo solido e onesto creatore, The Woman in the Yard si rivela come uno dei rappresentanti forse più fulgidi e tematicamente rappresentativi di cosa voglia dire e soprattutto essere il Cinema horror nell’attuale delicatissimo momento storico. 

 

 

[La Cupa Mietitrice non è quel che sembra in The Woman in the Yard. O forse si?]

 


Un’orrore, quello che permea sin nelle viscere quest’ultimo puledro della scuderia Blumhouse, che non vuole farci paura con ettolitri di emoglobina, secchiate di frattaglie o i soliti ammorbanti jumpscare un tanto al chilo, quanto piuttosto tramite l’egualmente raggelante tensione scaturita da rapporti familiare pericolosamente avviati verso una tragica autodistruzione e ovviamente anche attraverso quel solito temibile spauracchio che, come già più volte detto e ripetuto, più che far fisicamente male finisce inevitabilmente per causare dolore e sofferenza - dentro e fuor di metafora ovviamente - nel cuore e nella mente di coloro disposti incautamente ad accoglierlo dentro di sé.  

 

Basta infatti quell’unica firma capovolta ai margini di un quadro il cui soggetto parla ed evoca da solo più di mille bulimici spiegoni a farci capire quanto The Woman in the Yard sia tutto fuorché un’opera di prima e superficiale interpretazione; malgrado vada detto che la chiave necessaria a decriptarne il reale e viscerale senso ultimo non appare alla fine poi così criptica e occulta come si vorrebbe far intendere.  

 

 

[Se fissi troppo a lungo l'abisso di The Woman in the Yard sarà lui a scrutare dentro di te]

 

 

The Woman in the Yard è a mio avviso un film decisamente intrigante, seppur a tratti fastidiosamente irrisolto. 

 

Un prodotto che parte con la volontà di rimescolare un bel po’ le consuete stereotipate carte in tavola finendo tuttavia per non giocare appieno la mano che si è così meticolosamente apparecchiata, preferendo alla lunga ripiegare su incastri e combinazioni ormai canoniche sul logoro tavolo di un genere che, soprattutto negli ultimi anni ne ha viste davvero di cotte e di crude in materia di spiriti guida e ombrosi mortacci venuti da lontano per far rinsavire le colpose e autoindulgenti anime.  .  

 

“Mi hai chiamata e sono venuta!”

Sta in fondo tutto qui il senso ultimo e autentico di un film come The Woman in the Yard: ovvero nella piena e onesta consapevolezza del fatto che, molto più spesso di quanto non si creda, i mostri di cui abbiamo paura, soprattutto quelli che si nutrono di rimorso e senso di colpa, siamo noi stessi a invocarli nel momento del bisogno.

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