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La solitudine dei non amati - Recensione: la complessità delle relazioni

L'opera prima di Lilja Ingolfsdottir segue il nuovo filone del Cinema norvegese incentrato sull'individuo che si sperimenta in relazione agli altri

Una voce fuori campo ci conduce all’interno de La solitudine dei non amati e nella storia di Maria (Helga Guren), una donna con due figli e un matrimonio fallito alle spalle, che durante una festa incontra Sigmud (Oddgeir Thune). 

 

È un colpo di fulmine, almeno per lei.

I primi minuti de La solitudine dei non amati sono destinati al suo corteggiamento nei confronti dell'uomo: lui è magnetico, sfuggente e lei sa giocare molto bene le proprie carte.

Tra i due scoppia l’amore, un amore che va avanti per sette anni. 

 

Assistiamo dunque al loro primo incontro, alla tenera quotidianità che condividono e, successivamente, al momento di crisi della loro relazione; Maria è irascibile, instabile, Sigmud è assente, distratto: il loro matrimonio si trasforma presto in una bomba a orologeria.

 

[Il trailer de La solitudine dei non amati]

 

 

L’opera prima di Lilja Ingolfsdottir è un dramma al femminile dove la protagonista cerca disperatamente di incollare i propri pezzi rotti.

 

È lei ad essere una donna “rotta”. Si aggrappa a tutto ciò che ha tentato di costruire nella sua vita, e lo fa, per la maggior parte del tempo, inveendo contro sé stessa e gli altri.  

Nel massimo momento di rottura però qualcosa cambia: Maria capisce di doversi ricostruire, di dover raddrizzare la sua vita, di dover imparare ad avere un rapporto con sé stessa prima di potersi relazionare meglio con le persone della sua vita. 

 

In questo il rapporto con la madre e con la figlia giocano un ruolo fondamentale.

Maria non si sente vista perché, in primis, non sa vedere. Non sa riconoscere gli sforzi che la madre ha fatto per lei, non sa capire che la figlia ha bisogno di averla al suo fianco.

Quindi, la rottura dell’idillio con Sigmud rappresenta soltanto l’apice di qualcosa che era già pronto a esplodere e a non lasciare resti, portandosi via tutto, con Maria e tutte le sue certezze. 

 

La psicoterapia e il lavoro di analisi sono centrali ne La solitudine dei non amati.

Il film mette la protagonista continuamente davanti a delle domande, sviscera la sua interiorità tentando di fornire (invano) delle risposte agli spettatori. Quello che delinea Lilja Ingolfsdottir è un racconto di formazione molto personale, registicamente in linea con la piega che sta prendendo il cinema norvegese negli ultimi anni.

 

Basti solo pensare alle opere di Dag Johan Haugerud. I suoi Dreams e Love, usciti recentemente in sala, proprio come La solitudine dei non amati, vanno ad esaltare la costruzione e decostruzione dei rapporti umani e si prendono tutto il loro tempo per riflettere sull’incomunicabilità che spesso scuote le relazioni.

 

 

[Una scena de de La solitudine dei non amati]

 

È proprio l’impossibilità di fornire delle soluzioni che a mio avviso rende La solitudine dei non amati in parte interessante.

 

Gira su se stesso, quasi in un vicolo cieco, inciampa, ricade e Maria, la protagonista, fa lo stesso con lui.

In questi (pochi) momenti di caos misto a verità risiede la vera potenza del film. Se non fosse che, per la maggior parte della narrazione, questi attimi profondamente riflessivi vengano stemperati a favore di un lento procedere retorico. 

 

Arrivati ad un certo punto si perde l’entusiasmo, la curiosità per Maria, la sua vita, la sua evoluzione forse perché si può facilmente immaginare a che punto potrà arrivare, forse perché tutto sembra già scritto e già detto. Il fatto di vedere un film totalmente incentrato sulla sua protagonista e il suo tentativo di evoluzione personale può apparire a tratti ridondante.

La visione non è appassionata bensì, lenta, ponderata, riflessiva e questa scelta, più che costituire un vero punto di forza, può arrivare ad essere respingente verso uno spettatore che più che tiepidamente accompagnato vorrebbe essere motivato, scosso e acceso, perché La solitudine dei non amati non accende, ma stempera. 

 

Il rischio è che il Cinema di questo tipo tenda in qualche modo ad appiattirsi, a costituire un approccio scontato, portando i prodotti ad assomigliarsi un po’ tutti.

Sicuramente lodevole è la spinta a trattare con un desiderio di profondità l’interiorità umana e le sue sfaccettature, ma se il risultato risulta prevedibile quanto si può effettivamente parlare di profondità? 

 

Registicamente pulito, con interpretazioni convincenti, anche se non indimenticabili, portatore di tematiche complesse restituite fluidamente, ma quanto ci rimarrà impresso un film come La solitudine dei non amati?

___

 

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