#articoli
In seguito alla visione di The Brutalist, opera terza di Brady Corbet, si è verificato un fatto assai strano nella redazione di CineFacts.it.
L'opera racconta la storia dell’architetto ebreo László Tóth emigrato dall’Ungheria negli Stati Uniti nel 1947: dapprima costretto a lavorare duramente e vivere in povertà, il protagonista ottiene presto un contratto che cambierà il corso dei successivi trent’anni della sua vita.
Al di là della sinossi del film, a stupirci è stata la reazione collettiva alla proiezione: ognuno dei redattori inviati alla 81ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia ha ritenuto di doversi confrontare con i propri colleghi sulla portata dell'opera.
Ne è risultato un articolo a 6 mani, che condensa tre prospettive diverse su The Brutalist: un film che per ciascuno di noi risulta essere l'esperienza di visione più intensa mai vissuta nel corso di un festival cinematografico.
_____
Il valore del tempo
Quando si assiste a un'opera di questo genere, la domanda che sorge spontanea è una sola: quanto tempo può trascorrere prima che il giudizio comune si sia sedimentato?
Quanto tempo deve passare perché la legittima ammirazione verso un'opera simile non sia vista come un'impropria esaltazione?
The Brutalist ha questo effetto: dirompente, in grado di portare lo spettatore a domandarsi quali siano i propri limiti.
Brady Corbet è riuscito, sotto questo profilo, in un miracolo: quello di dominare il tempo.
Lo domina piegando la percezione della sua pantagruelica durata di 215 minuti ma, cosa più importante, il suo sembra già essere un film fuori dal tempo.
The Brutalist è animato da un respiro epico di portata monumentale, fondato su una ricerca artistica tanto stratificata da rendere necessario un processo di storicizzazione.
Il László Tóth plasmato da Brady Corbet è un autentico Prometeo del Novecento: attraverso la sua architettura sfida gli dei, le logiche sociali imposte e lo scorrere stesso del tempo, attuando una riflessione sulla natura umana di sconvolgente profondità.
La sua perenne condizione di esule e il suo costante scontro con il mondo fanno ardere la fiamma di un film che, dipanandosi lungo oltre trent'anni, ci mostra le speranze e le degenerazioni di un sogno ancor più grande di quello americano: il sogno di un'umanità realmente pura, generosa, in grado di costruire insieme, di non prevaricare il prossimo.
The Brutalist riflette su tutto questo attraverso lo strumento più impassibile al tempo che l'uomo conosca: l'immagine cinematografica, cristallizzata e sospesa nel suo eterno presente ma, proprio per questo, più magnificente che mai.
[a cura di Jacopo Gramegna]
[Adrien Brody in The Brutalist punta dritto alla Coppa Volpi] The Brutalist
Il valore dell'arte
Il capitalismo controlla l'arte.
Ne sfrutta la potenza per esercitare un'appropriazione indebita culturale e, perciò, identitaria.
In The Brutalist Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), un novello Daniel Plainview, vuole appartenere al mondo degli artisti e desidera parlare come loro, brama l’intelligenza.
Un vezzo da ricco borghese annoiato? In realtà per Harrison questo desiderio di appartenenza rappresenta una necessità.
Come fare, dunque, se si è privi di cultura?
La si compra per poi sfruttarla: trasformare l’estro in oggetto. L’oggetto in questo caso è l'architetto ungherese László Tóth (Adrien Brody), emigrato a New York per sfuggire alla persecuzione nazista.
Figlio della scuola Bauhaus, László vede geometrie armoniose laddove gli altri urlano alla vergogna, mostrando come è la fede - le sue costruzioni tendono sempre alla verticalità del cielo - a cambiare la nostra percezione della realtà.
Si potrebbe pensare a La fonte meravigliosa di Ayn Rand, ma Brady Corbet amplia a dismisura il suo racconto portando l'architetto verso le strade più oscure dell'American Dream, costruendo una nuova indagine sulla nascita di un capo - e di una nazione - già filmata nel suo folgorante esordio.
Come se fosse un’epopea autodistruttiva bagnata di lacrime e sangue, The Brutalist con i suoi imperiosi 225 minuti in pellicola 70mm si scaglia come un monolite verso l’ipocrisia della società capitalistica riducendo l’uomo ad animale morente.
Il compito di risollevare il popolo spetta dunque alle figuri femminili, le uniche in grado di sfidare vis a vis il potere (annientandolo).
Corbet filma con estrema grazia la brutalità della Storia in The Brutalist, spaziando tra generi cinematografici e influenze culturali, riducendo ai minimi termini la distanza che lo separa dall'artigianità illuminante degli architetti della Bauhaus.
[a cura di Emanuele Antolini]
[Un'immagine da The Brutalist] The Brutalist
Il valore dello spazio
In Costruire abitare pensare, nel quadro di una riflessione che due anni più tardi avrebbe affrontato di petto la questione della tecnica occidentale, Martin Heidegger antepone l'abitare al costruire: non si costruisce per poi abitare, ma si costruisce in quanto già si abita il mondo (vivo).
Sempre Heidegger, ugualmente celebre per alcune pagine oscure della propria biografia, aggiorna la chiacchiera antisemita sugli ebrei privi di patria re-interpretandola in relazione al concetto di (e alla storia della) metafisica: la mancanza di Heimat favorisce infatti uno sguardo calcolante nei confronti del mondo (inerte).
The Brutalist mostra la parabola di un architetto ungherese, figlio di quel Bauhaus che nel 1933 era stato chiuso dal Terzo Reich, ebreo che va saltuariamente in sinagoga e guarda con poca simpatia alla (ri)nascita di Eretz Israel.
Con una sequenza degna di È difficile essere un dio, László Tóth è accolto anzitutto da New York nella figura di una (Statua della) Libertà rovesciata.
Arriva per mare nel regno contemporaneo del potere marittimo (e aereo) - nei termini del politologo Carl Schmitt, pensatore tedesco ben più che compromesso col nazismo - e viene presto abbandonato, quando ormai è a Philadelphia, dai parenti lì incontrati.
Senza famiglia e senza patria, nuova o vecchia, László ha un modo di abitare il mondo da cui sgorga (senza determinismi) un costruire inviso ai nazisti: non opera più la spinta ideologica che animava il razionalismo dell'International Style - razionalità e internazionalità - ma un tentativo di sintesi più ampia che assume qui il nome di brutalismo.
La tecnica, prima strumento di emancipazione nelle mani del Movimento Moderno e poi strumento di annichilazione nelle mani del regime hitleriano, ha segnato un cambio di passo.
Con un percorso nient'affatto lineare in cui è proprio la natura marittimo-mercantile degli Stati Uniti a giocare un ruolo di primo piano, senza che il ritorno nella terra promessa sia un'opzione davvero percorribile (sul piano esistenziale), Brady Corbet esplora in The Brutalist le possibilità dell'architettura in un momento - come dice Giorgio Agamben - in cui si dà inequivocabilmente "l'impossibilità o l'incapacità di abitare dell'uomo moderno".
Se ricordiamo come Auschwitz sia stato progettato da un altro figlio del Bauhaus, Fritz Erl, e se la terra europea arriva dove arriva anche dal bello (e dal buono, e soprattutto dalla techne: tecnica e arte) dei Greci, si rende chiaro come nei giochi di pieni e vuoti in cui dialogano il più alto e il più basso, il divino e lo sterminio, non possano che specchiarsi le fratture che costituiscono il nostro mondo.
Mai più sulla terraferma, tagliati ormai nietzschianamente i ponti dietro di noi, la navicella deve imparare ad abitare l'oceano senza fine e le città vanno costruite sul Vesuvio: László raccoglie con dolore, nella lingua degli spazi esistenziali, questo esatto destino.
[a cura di Mattia Gritti]
CineFacts segue tantissimi festival, dal più piccolo al più grande, dal più istituzionale al più strano, per parlarvi sempre di nuovi film da scoprire, perché amiamo il Cinema in ogni sua forma: non potevamo dunque mancare l'appuntamento con la Mostra di Venezia!
1 commento
Giacomo Camilli
1 mese fa
Rispondi
Segnala