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Belfast - Recensione: un'altalenante playlist di ricordi

Recensione di Belfast, film diretto da Kenneth Branagh candidato a 7 Premi Oscar

La prima sensazione che ho provato dopo aver visto Belfast di Kenneth Branagh è stata quella di essermi trovato di fronte a una playlist di brani legati da un’idea di fondo, ma senza una vera coerenza che ne garantisse la solidità strutturale utile a far diventare quelle canzoni un album vero e proprio.

 

Candidato a 7 Premi Oscar 2022, tra cui Miglior Film e Migliore Regia, il film diretto dal regista irlandese è un racconto autobiografico dello stesso Branagh ambientato a Belfast nell’agosto del 1969, in un’estate che cambiò per sempre la sua vita.

 

[Il trailer di Belfast]

 

 

Il periodo storico ci porta quindi agli scontri tra cattolici e protestanti che in quegli anni terrorizzavano l’Irlanda del Nord e che furono una delle cause scatenanti - insieme alla crisi economica - della massiccia migrazione degli irlandesi verso l'Inghilterra e altri Paesi.

 

Il mondo che vediamo in Belfast è quello filtrato dagli occhi di un Kenneth Branagh bambino, Buddy, interpretato dal bravissimo Jude Hill: un mondo fotografato da Haris Zambarloukos in un bianco e nero pulitissimo, quasi da cartolina.

 

Viene subito messo in chiaro che il film sarà tinto da toni fiabeschi - in una delle prime scene vediamo il piccolo Buddy lottare contro un drago immaginario - e permeato perciò da un'idealizzazione della città, da una sensazione d’incanto costante che solo un bambino può avere.

 

Questo aspetto è croce e delizia di Belfast, perché se da un lato alcuni momenti funzionano - in particolare quando in scena sono presenti i nonni del bimbo - dall’altro l’eccessiva costruzione rapsodica finisce per risultare artificiosa, affossando parte del film: durante i 97 minuti di durata in Belfast assistiamo a scene molto ispirate per regia e scrittura che non vengono però mai approfondite fino in fondo, quasi per paura di mostrare il lato umano - non solo quindi quello concettuale - dei personaggi che gravitano attorno ai ricordi di Branagh.

 

Ci sono momenti commoventi che lasciano trasparire qualcosa in più del classico ricordo, ma la durata di queste situazioni è talmente breve che non riesce a graffiare come dovrebbe, non riuscendo mai a scalfire la patina che il regista ha creato.

 

Un problema che si presenta costantemente durante la visione perché figlio della stessa impostazione narrativa che Sir Branagh ha voluto conferire a Belfast.

  

 [

[Da sinistra: Jamie Dornan, Ciarán Hinds, Jude Hill e Judi Dench]

 

 

La decisione di rendere il film come un flusso di ricordi risulta a mio avviso tanto seducente quanto fallace, alternando momenti in cui traspare tutta la malinconia del regista ad altri eccessivamente didascalici, quasi posticci per come sono inseriti all’interno del montaggio (in particolare, penso alla maggior parte dei frangenti dove interagiscono i genitori di Buddy).

 

Queste scelte, inoltre, influiscono notevolmente sul contesto storico del film, non donando mai a Belfast quella caratura di affresco di una città che altre operazioni similari possiedono; si pensi a Roma di Alfonso Cuarón oppure a È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino.

 

Forse al film di Kenneth Branagh avrebbe giovato un minutaggio più corposo, utile ad affrontare con maggior respiro tutti i drammi che la vita reale ci presenta: assistere a tensioni politiche, problemi economici e sanitari filtrati dall'ottica dell’infanzia era un’idea affascinante e terribilmente romantica.

 

 

 

 

Fortunatamente Belfast è sorretto da interpretazioni di rilievo, fra tutte quelle di Judi Dench e Ciarán Hinds - i nonni di Buddy - che riescono a passare con disinvoltura dal dramma alla commedia, mostrando un’alchimia fantastica per quanto naturale.

 

Essendo il film di Branagh un’opera che vive di situazioni e, soprattutto, di personaggi, il cast riesce a dare un’impronta propria a Belfast, rendendo omaggio a tutte quelle persone a cui il diciannovesimo lungometraggio del regista è dedicato.

 

“A quelli che sono rimasti, a quelli che sono partiti, a quelli che si sono persi lungo la strada”.

 

Così come gli attori rappresentano un punto di forza del film, anche la centralità del Cinema stesso mostra un’ispirazione interessante, rendendo Belfast un sentito omaggio alla Settima Arte.

 

In più di un'occasione vediamo il piccolo Buddy guardare alla televisione i film western o andare al cinematografo, aspetto che si riflette sulla mente e perciò sui ricordi di Branagh.

 

 

[La famiglia di Buddy al cinema per vedere Citty Citty Bang Bang]

 

C’è un momento in particolare, durante gli scontri tra cattolici e protestanti, dove vediamo il papà di Buddy affrontare un fanatico attivista: un duello rappresentato dal Branagh bambino come un western à la Mezzogiorno di fuoco.

 

La realtà delle vicende è dunque edulcorata, seguendo l’iniziale idea di conferire alla narrazione dei toni fiabeschi; il problema si presenta però quando avviene il cambio di prospettiva all’interno del racconto, ossia nei momenti in cui non vediamo più Belfast attraverso gli occhi di Buddy ma con quelli degli adulti, siano essi i genitori o i nonni.

 

Il registro del film rimane sempre il medesimo nonostante la prospettiva sia differente e, di conseguenza, mostri una città e un mondo diverso.

 

A fine visione ho avuto l’amara sensazione di aver fruito di un film le cui ottime premesse non sono state mantenute, quasi avessi osservato una playlist di ricordi, malinconica e dolce, ma troppo altalenante per risultare convincente sino in fondo.

 

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