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Terrence Malick ed Emmanuel Lubezki: alla ricerca di...

Da The New World - Il nuovo mondo a Song to Song

Peccato non sia iniziata nel 1998, con La sottile linea rossa, la collaborazione artistica tra Terrence Malick ed Emmanuel "Chivo" Lubezki, entrambi eminentissimi esponenti della rispettiva categoria professionale ed entrambi capaci di trascendere certi limiti categoriali.

 

Peccato perché proprio con il capolavoro sopracitato, il suo terzo lungometraggio, Terrence Malick apre quella sfaccettata fase di carriera che è ancora in essere, una fase che ha raggiunto il massimo grado di compiutezza estetica nell'arco delle cinque opere co-create dal direttore della fotografia messicano.

 

È nel 2005 che Emmanuel Lubezki inaugura la simbiosi con il cineasta texano, firmando la fotografia di The New World - Il nuovo mondo e gettando al contempo le basi per ciò che esploderà in maniera inequivocabile in The Tree of Life e in modo effettivamente esplicito in Knight of Cups.

 

 

 

Proprio quest'ultima pellicola, difatti, esprime a chiare lettere uno dei fili conduttori - forse il più rilevante, segnalato da Alessandro Baratti con diversi anni di anticipo - in grado di legare in profondità l'esigua produzione del regista. 

 

Nei primissimi minuti, dominati dalla polifonia del voice-over e da immagini molto evocative, giungono all'orecchio dello spettatore due citazioni riguardanti altrettante opere filosofico-religiose assai particolari, emerse in contesti parecchio diversi: la prima si lega a Il pellegrinaggio del cristiano, romanzo seicentesco del teologo protestante John Bunyan il cui titolo italiano omette la segnalazione del carattere onirico-allegorico delle vicende, la seconda a un racconto apocrifo del 200 d.C. denominato a posteriori Canto della Perla, che funge da chiave di volta per il fruitore volonteroso di approfondire.

 

Tale racconto è infatti riconducibile al macro-pensiero dello gnosticismo, in genere parzialmente connesso a quello cristiano, del quale - pur rimandando alla voce dell'Enciclopedia della Treccani - sarà bene elencare qualche coordinata di base, nel tentativo di inquadrare l'essenza della poetica (e dell'estetica, anche grazie al contributo di Lubezki) di Terrence Malick.

 

Ecco alcuni punti focali. 

- Dalla "gnosi, «conoscenza», […] dipende la salvezza spirituale" e questa è "esoterica, espressa per lo più in forma di mito e concessa […] agli eletti", ai predestinati (concetto inteso in diverse chiavi). 

 

- Perno di fondo è "il contrasto tra l'irraggiungibile perfezione e ineffabilità di Dio e il mondo con tutto il male che è in esso", che sovente è risolto - a livello figurato e figurativo - nella "contrapposizione tra «luce» e «tenebre»".

 

- Sono distinti un perfetto Dio in grado di emanare (non creare) Cristo e lo Spirito Santo e un malvagio Demiurgo, corrispondente al Dio dell'Antico Testamento e colpevole di aver creato il mondo.

 

La connotazione morale del creato può fungere da spunto per sottoporre a tale lettura la filmografia malickiana e per saggiare al contempo l'applicabilità di altri approcci interpretativi: sono stati difatti chiamati in causa - anche molto sincreticamente - parecchi complessi di credenze/teorie, tra Cristianesimo e cristianesimi, tra esperienze spazio-temporalmente più lontane e panteismi con o "senza Dio", per dirla con Bruno Fornara, critico cinematografico.

 

Fornara che, per l'appunto, si riferisce a I giorni del cielo, pellicola del 1978 che per chi scrive non rientra nella fase di Terrence Malick più afferente, in differenti e non-esclusive maniere, allo gnosticismo.

 

Sia questa sia La rabbia giovane celano sì dei punti di potenziale interesse, ma una risemantizzazione a posteriori del cuore ideale delle due opere rischierebbe di portarci in errore, tanto osservandone la complessità quanto considerando come ciò sarebbe un retrodatare una sensibilità emersa davvero almeno due decenni dopo.

 

 

[Un frame da The New World - Il nuovo mondo] Malick

 

 

È con La sottile linea rossa che questa conquista infatti il palcoscenico, anche se non quel proscenio che sarà occupato dal 2011, in quattro dei cinque film co-creati dal Chivo: in toto potremmo quindi distinguere, animati da un furore classificatorio e partendo dal 1998, una sorta di stadio pre/filo-gnostico - rischiando di incappare proprio negli errori appena menzionati - e uno gnostico.

 

Il secondo e ultimo tassello del primo segmento è rappresentato da The New World - Il nuovo mondo, film che nella nostra ottica possiede in realtà dei connotati piuttosto ambigui: anticipa soluzioni stilistiche e macro-tendenze estetiche che guadagneranno rilevanza assoluta, ma insieme guarda all'esistente e ai personaggi da un punto di vista meno gnostico, almeno in riferimento a certi assunti fondanti.

 

Considerando come in questa sede il focus riguardi il secondo stadio, alla luce della sua maggior compattezza e del peso quantitativo in relazione a Malick-Lubezki, sarà pertanto bene evidenziare solo alcune caratteristiche, parlando così indirettamente già delle opere successive.

 

Partiamo dal film come opera finita: rispetto alle esperienze precedenti, Terrence Malick indebolisce l'intreccio (rimane solo una "discreta quantità di trama") e altera in maniera decisiva, seppur non netta, il rapporto di forza tra forma e contenuto.

 

Cineasta da sempre attentissimo a far interagire felicemente tali dimensioni, egli decide di frammentare quel poco di linearità narrativa rimasta per investire di un notevole potere significante proprio quella tecnica che genererà la forma (che a sua volta, dunque, genererà dell'ulteriore contenuto), e proprio Lubezki, del resto, dirà che per Terrence Malick "la forma e il contenuto sono fondamentalmente connessi".

 

Le scelte compiute assieme al direttore della fotografia e a Jörg Widmer (abituale operatore di macchina e DoP di seconda unità, poi subentrato al Chivo per La vita nascosta - Hidden Life) vanno nella direzione di un naturalismo piuttosto paradossale, specie se rapportato alla consueta concezione artistica del concetto e/o alla percezione umana della realtà fenomenica: ellissi su ellissi e frenesia lirica non fanno altro che palesare la presenza di una mediazione, operante più sul piano del filmico che su quello del profilmico.

 

Proprio quanto detto a proposito dello gnosticismo potrebbe sanare, almeno in parte, diverse contraddizioni potenziali: il carattere iniziatico e misterico di tale dottrina, certo non dogmatico in senso tradizionale, ne giustifica infatti una visione iper-soggettivistica, tratto riconosciuto tanto dagli studiosi quanto da Papa Francesco, per dirne uno.

 

In via ipotetica potrebbe pertanto essere possibile interpretare la fase gnostica di Terrence Malick, nei suoi due stadi, come un susseguirsi di esplorazioni soggettive e in soggettiva di un creato, definizione questa che richiede di essere precisata perlomeno in due sensi.

 

Primo: esplorazioni di un creato e non del creato, considerando sia il soggettivismo (che per la Treccani "risolve […] la realtà delle cose in quella del soggetto che le pensa") sia lo statuto dell'immagine filmica, generalmente non più intesa come mera copia della realtà e di conseguenza da interrogare in merito alla paternità creativa/creatrice.

 

Secondo: esplorazioni soggettive e in soggettiva alla luce tanto, per l'appunto, del soggettivismo di fondo quanto degli aspetti tecnico-formali, che costituiscono il nodo principale del nostro discorso visto l'apporto di Lubezki.

 

 

[Un frame da To the Wonder] Malick Malick Malick

 

 

Leghiamo ora questi aspetti a una riflessione ulteriore: adottando una tassonomia consolidata ed estendendo il riferimento alle opere del secondo stadio, genericamente compaiono diverse soggettive e semi-soggettive, alle quali si sommano delle false soggettive - già di per sé teoricamente interessantissime - e delle oggettive assai peculiari.

 

Grazie a ciò è possibile precisare la definizione soprindicata in un terzo senso, relativo all'uso del plurale per il termine "esplorazioni": quel susseguirsi è realizzato da esplorazioni già multiple per ciascun film, e non solo nel modo più evidente.

 

Del resto, la polifonia è sì tratto distintivo di Terrence Malick sin da La sottile linea rossa, ma non si concretizza esclusivamente sul versante diegetico.

Per quanto riguarda la complessa gestione del voice-over, ad esempio, notiamo la presenza sia di molteplici narratori interni (omodiegetici, che dunque generano una polifonia già di questo tipo) sia di narratori esterni (eterodiegetici); per il visivo distinguiamo invece punti di vista interni, con la loro polifonia relata ai personaggi in scena, e un punto di vista esterno-esterno, quello di una sorta di mega-soggetto.

 

A prescindere dal ruolo demiurgico di tale mega-soggetto - termine che rimanda alle riflessioni del teorico André Gaudreault - in ogni chiave, quest'ultima partizione si connette alla coppia soggettive-oggettive, la quale, oltre a comprendere procedimenti più ambigui come semi-soggettive e false soggettive, pare reinterpretabile allargando il concetto di polifonia.

 

In breve, condensando il ragionamento, potremmo considerare molte oggettive malickiane, viste le loro specificità e visto il retroterra filosofico, come delle pseudo-soggettive riconducibili a un Terrence Malick ideale - facendo così un parziale riferimento alle teorie dell'enunciazione - e mediate da Emmanuel Lubezki.

 

Ciò perché la forte esibizione della presenza della cinepresa, con i suoi movimenti convulsi - assecondati dal montaggio, con il montatore Mark Yoshikawa che non a caso (per The Tree of Life) parla di una concezione cubista della continuità - materializza un senso di perenne ricerca, ricerca di un qualcosa di infilmabile, di solo vagamente intuibile.

E così, tra parentesi, possiamo cogliere diversi tratti di continuità, pardon, con i videodiari di Jonas Mekas, col suo frammentismo (i "glimpses") e il suo soggettivismo, lì comunque filtrati, in maniera centrale anche in relazione alla fruizione, dalla forma del documentario.

 

Il cineasta di Waco, a differenza dell'omologo lituano-newyorkese, è alla ricerca però di quelle "particelle di luce" - cito ancora la Treccani - che gli eletti possono intravedere qua e là nell'esistente, imprigionate chissà dove e chissà quanto in quella materia che rimane prodotto di una Creazione nefasta.

Ricerca che è evocata a più riprese, anche letteralmente e insieme al concetto di luce, nei vari film, e ricerca, a ben vedere, dalla natura triplice.

 

Distinguiamo difatti: una ricerca sulla forma, tradotta nella reale interazione tra Terrence Malick, collaboratori, possibilità/scelte tecniche e volontà di generare del significato ulteriore; una ricerca, quella appena vista, concretata a livello di trasformazione delle oggettive; una ricerca espressa anche tramite l'intreccio, come ben esemplifica il vagare del protagonista di Knight of Cups, specie considerando il carattere allegorico della pellicola.

 

Il profondo connettersi di tutte e tre le dimensioni, guardando in particolare alla terza, è ribadibile riferendosi agli studi sulla narrazione compiuti da Nick Browne, per cui (via Francesco Casetti) il personaggio "ha anche la funzione di mediare i rapporti tra narratore e spettatore": ciò a maggior ragione nel caso di Terrence Malick, sulla base di quanto detto a proposito della polifonia e della nozione di mega-soggetto e, inoltre, di un certo autobiografismo che s'insinua di tanto in tanto.

 

A maggior ragione nel suo caso anche interessandoci della fruizione e adottando il punto di vista di Jean-Louis Baudry, teorico cinematografico d'ispirazione psicanalitica che, tra gli altri, concepisce uno spettatore portato a identificarsi prima con la cinepresa (dunque col mega-soggetto) e poi coi personaggi (dunque con dei soggetti diegetici che fungono da mediatori).

 

 

[Un frame da Knight of Cups] Malick Malick Malick

 

 

Vediamo ora di accorpare lato tecnico-formale, considerando Lubezki in prima persona, e lato produttivo, cominciando con una dichiarazione del DoP messicano, che conferma come Terrence Malick sia "più interessato alla creazione dell'emozione che ad una narratività tradizionale" e come pertanto la fotografia "non [venga, n.d.r.] utilizzata per illustrare un dialogo o supportare la recitazione": ad esempio, in The Tree of Life (definito un "film esperienziale") "le immagini […] sono finalizzate a rievocare memorie".

 

Ripartiamo brevemente da The New World: Widmer segnala nel 2020 ad Artdigiland che "in quel momento […] c'era ancora una sorta di sceneggiatura, […] ma già allora accogliere l'inaspettato e l'imprevisto era una regola chiave sul set", come vedremo meglio in seguito, anche grazie ad una troupe operante in senso simil-documentaristico.

 

Ciò spiazza Lubezki, sulle prime "molto preoccupato per le cose che si imparano a scuola, come la continuità", Lubezki che però nel 2013 (!) dirà come in sostanza si stesse "ancora girando [riferendosi specie agli aspetti produttivi, n.d.r.] come viene girata la maggior parte dei film".

 

Sempre Widmer esplicita comunque alcune generiche linee guida ("evitare movimenti [della cinepresa, n.d.r.] laterali o obliqui […] seguire sempre la luce […] filmare in accordo coi flussi naturali") e altre scelte meno dogmatiche, come quella ricaduta su di "set di tre focali corte [quindi ottiche spesso grandangolari, n.d.r.], così che la prospettiva del pubblico sui personaggi non cambiasse" o quella che ha portato a "mescolare formati diversi".

 

Le altre opere, da The Tree of Life a Song to Song, risultano poi analizzabili quasi congiuntamente, almeno in un certo senso visto che - al netto di alcune differenze - condividono più assunti fondanti, alcuni già indicati e altri riferibili anche all'esordio di Malick-Lubezki: è comunque doveroso chiarire come, nonostante ciò, tutti gli esiti post The Tree of Life (non a caso definito da Lubezki "molto convenzionale") si distanzino da quest'ultimo proprio in virtù di un'esasperazione di certe indicazioni di base.

 

In ogni caso, il direttore della fotografia ha dichiarato come egli crei, per non scontrarsi con le potenzialità illimitate del linguaggio filmico, un "set di regole" per ogni film, e così l'ASC, l'associazione dei direttori della fotografia statunitensi, ha provato a compilare una lista degli elementi costitutivi del "dogma" confezionato - assieme a Terrence Malick, che "sa tutto sulla fotografia cinematografica e sulle luci" - per The Tree of Life.

 

Ne elencheremo ora alcuni, quelli più identificativi e intellegibili, integrandoli con altri - oltre al già citato ricorso alla luce naturale - per creare una sorta di macro-dogma paradossalmente più flessibile, e quindi riferibile, per l'appunto, alle opere del secondo stadio: usare solo camera a mano e steadicam, muovendole sull'asse per evitare panoramiche; non utilizzare dolly e slider (dunque carrellate); adottare focali corte e sfruttare la profondità di campo; evitare i flare (riflessi di luce); non usare filtri; cercare il controluce; non sottoesporre il negativo; non impiegare lo zoom; essere pronti a cambiare frequentemente gli stop per togliere luminosità.

 

 

[Un frame da Song to Song] Malick Malick Malick 

 

 

Se avete visto qualche film dell'ultimo Terrence Malick e/o se possedete qualche nozione di tecnica fotografica, avrete ben capito come tali caratteristiche, proprio nell'ottica della filosofia di fondo e come in parte abbiamo già anticipato, si leghino ad una peculiare organizzazione produttiva, visto che, innanzitutto, queste regole (già "piene di contraddizioni") contemplano eccezioni, e le contemplano "perché se non cambi il film non respirerà e non sembrerà umano".

 

L'unico criterio davvero dogmatico è infatti l'essere aperti all'accidentale, alla comparsa improvvisa del meraviglioso e dello spontaneo, non solo sul piano attoriale: insomma, "per Terrence Malick una scena non deve mai essere «organizzata», deve essere «trovata»", e proprio per questo il Chivo ha affrontato Knight of Cups e Song to Song senza aver letto la sceneggiatura.

 

Da qui, in toto, il riferimento, anche considerando la leggerezza della troupe, a un paradigma documentaristico, che determina continui cambi di location (con ognuna di queste connessa ad un preciso "mood", grazie al fondamentale apporto dello scenografo Jack Fisk), il "mai girare due volte la stessa scena" e un approccio libero e audace sul versante tecnico, come testimonia l'emblematico inserimento di riprese effettuate con la action camera GoPro - manovrata dallo stesso Christian Bale! - in Knight of Cups.

 

Ma se "in un documentario [classico, n.d.r.] vuoi catturare tutto", vuoi "mostrare l'azione in modo molto obiettivo", nelle pellicole di Terrence Malick, dice Lubezki, "volevamo perderne la maggior parte", come ben sanno - per motivi opposti - Christopher Plummer e Jonas Mekas.

 

Questa commistione tra sostrato concettuale e aspetti produttivi genera quindi un iper-dinamismo ("ci sono momenti in cui non c'è tempo nemmeno per caricare la pellicola") che non si traduce comunque in confusione, in un "gran bazar": per Widmer sopravvive "un'idea precisa di come muovere la cinepresa", e questo, dice ancora Lubezki, "perché tutti noi lavoriamo per lo stesso scopo, ciascuno ascolta la visione che ha Terry e tenta di aiutarlo al meglio".

  

Il che vuole dire "lavorare al limite della catastrofe, […] al limite dell'esposizione, dell'inquadratura".

 

Cioè sperimentare, essere inesorabilmente alla ricerca di...

 

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